Il nome di Francesco Rosi viene associato al nostro migliore cinema di passione civile e politica: Citizen Rosi, per citare il titolo di un recente documentario sul regista. Salvatore Giuliano (1962) è il suo terzo film e rappresenta la codificazione di un modello di cinema che utilizza le convenzioni del genere noir e poliziesco per condurre un’inchiesta con importanti risonanze sociali e politiche. Rosi, quindi, come citizen ma anche come detective. Negli anni in cui culminava il miracolo economico italiano, il regista porta, infatti, sugli schermi la povertà della Sicilia della seconda metà degli anni 40, il contesto sociale sul quale, con la complicità politica e mafiosa, si innesta il banditismo di Giuliano.

Fin dalle informazioni iniziali che dichiarano che i luoghi dove è stato girato il film sono gli stessi dove Giuliano ha passato gli ultimi anni della sua vita, il film rifiuta il genere del biopic per connotarsi come un’indagine di cui la macchina da presa rappresenta il principale strumento di detection. Rosi e gli sceneggiatori Suso Cecchi d’Amico, Enzo Provenzale e Franco Solinas paradossalmente non conferiscono a Giuliano un’identità cinematografica riconoscibile: il volto di Pietro Cammarata, già di per sé sconosciuto agli spettatori, non viene mai inquadrato in modo nitido e la figura del bandito non diventa mai protagonista in prima persona della narrazione.

Come in un noir, l’inizio di Salvatore Giuliano ci mostra dall’alto il cadavere del bandito, rinvenuto del luglio 1950, con la dichiarazione della sua morte, la descrizione del corpo della vittima e delle dinamiche del rinvenimento da parte delle forze dell’ordine. Tuttavia, è subito chiaro che la macchina da presa non si accontenta di registrare la versione ufficiale. La convenzione di genere che presuppone la scarsa fiducia nell’operato del corpo di polizia mette in moto un’ulteriore convenzione, questa volta narrativa: il flashback utilizzato per portare alla luce il passato del morto.

Questa alternanza di presente e passato caratterizza l’andamento di tutto il film, sia nella prima parte in cui viene ricostruita la militanza eversiva di Giuliano nel movimento autonomista siciliano e la sua partecipazione alla strage di Portella della Ginestra, sia nella seconda in cui la scena principale diventa l’aula di tribunale dove si celebra il processo proprio per quella strage, cercando di dare un volto ai mandanti politici, destinati, tuttavia, a rimanere senza nome anche per l’avvelenamento in carcere di Pisciotta. Con un flashforward finale, il film termina nel 1960, avvicinandosi al presente degli spettatori, con l’assassinio del mafioso che aveva trattato con lo Stato per assicurare l’arresto della banda di Giuliano.

Come nella migliore tradizione noir, il finale non ristabilisce nessun tipo di ordine e sancisce non solo e non tanto l’ennesima sconfitta dello Stato, incapace di prevenire ulteriori omicidi, ma anche e soprattutto una parziale dichiarazione di incapacità dell’indagine del film di arrivare ad una conclusione rilevante. È lo stesso personaggio di Pisciotta, interpretato da Frank Wolff, unico volto noto del film insieme al sempre efficace Salvo Randone nel ruolo di Presidente della giuria, a gridare l’insoddisfazione per il percorso di un film che, partendo dalla morte di Giuliano, mette invece in scena il processo per un altro crimine: quello appunto della strage di Portella, un depistaggio narrativo e di genere. “Si dovrà fare un giorno un processo per la morte di Salvatore Giuliano, allora dirò tutto quello che non ho detto qui”, urla Pisciotta alla lettura della sua sentenza di condanna.

Le sue parole, insieme ai due omicidi che seguono, uno dei quali il suo, invocano il fallimento di una chiusura narrativa.