La tradizione vuole che Orson Welles abbia definito La croce di ferro (1977) di Sam Peckinpah come il più grande film contro la guerra. Chissà, forse – entrando nei territori dell’ucronia – se fosse ancora vivo oggi applicherebbe la stessa definizione anche a un nuovo kolossal bellico, Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022), il terzo adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo dello scrittore tedesco Erich Maria Remarque, questa volta diretto da Edward Berger.

Un film apertamente anti-militarista, che non può competere con Bloody Sam in quanto a regia e interpretazioni, ma che mette in scena una rappresentazione della guerra molto affine, come qualcosa di violento, sporco e sanguinario, qualcosa che fa schifo a tutti eccetto ai politicanti che siedono dietro le scrivanie. Dopo il classico imprescindibile di Lewis Milestone del 1930 All’ovest niente di nuovo e l’omonima riduzione televisiva di Delbert Mann (1979), tocca a Edward Berger – finora attivo più che altro come regista di serie televisive – l’ardito compito di girare la nuova trasposizione cinematografica, con risultati sorprendentemente egregi.

Niente di nuovo sul fronte occidentale, ora distribuito su Netflix, è anche il primo film tratto da questo romanzo ad essere diretto da un regista tedesco e co-prodotto dalla Germania, cioè il Paese dalla cui prospettiva è narrata la vicenda, che anche in questo caso è abbastanza fedele allo scritto di Remarque. Protagonista è il giovane Paul Bäumer (Felix Kammerer), un tedesco che insieme ad alcuni coetanei si offre volontario, durante la Prima Guerra Mondiale, per partire come soldato al fronte. Sotto la guida di un severo comandante, viene destinato al fronte occidentale, sul confine tra Germania e Francia, un punto delicato dove i tedeschi cercano di sfondare la linea per invadere i francesi, che a loro volta combattono insieme alle truppe alleate per mantenere il territorio.

Paul e i suoi amici, ora commilitoni, si rendono conto ben presto che la guerra è qualcosa di completamente differente rispetto a ciò che loro avevano ingenuamente sognato: i ragazzi si stringono sotto la guida del più esperto Kat (Albretch Schuch), conoscono la dura vita delle trincee, piene di fango e prive di cibo, e durante gli scontri a fuoco imparano a loro spese la natura della guerra, fatta di sangue e morte. Dopo un breve periodo di quiete, i soldati devono tornare al fronte, e i superstiti del gruppo sono sempre meno; nel frattempo, alcuni politici tedeschi cercano di negoziare la pace con gli Alleati.

La produzione che sta alle spalle di un film come questo è evidentemente ricca, per potersi permettere così tante scene corali e spettacolari di combattimento, un incredibile dispiegamento di mezzi, armi e location, e l’utilizzo di numerosi effetti speciali, ma il budget non basta: motivo per cui la regia stupisce per la maturità e la capacità di tenere insieme un’opera così complessa, oltre al comparto tecnico come la fotografia quasi vintage, le inquadrature di ampio respiro e la lugubre colonna sonora, che risuona spesso come le trombe dell’Apocalisse in una sinfonia di morte. Perché Niente di nuovo sul fronte occidentale è un film sporco e violento, come dev’essere ogni war-movie che si rispetti, una pellicola che non risparmia scene sanguinarie e una rappresentazione della morte degna di un film dell’orrore – del resto, la guerra stessa è orrore, come declarava il colonnello Kurtz in Apocalypse Now.

Un film tosto, che spinge la rappresentazione della brutalità dentro l’abisso, con scene ai limiti dell’insostenibile, ma senza voler fare exploitation, bensì per documentare quella che è la sostanza della guerra. La scena-madre, in tal senso, è forse l’uccisione di un soldato francese da parte di Paul durante uno scontro corpo a corpo, durante il quale il tedesco pugnala ripetutamente il nemico per salvarsi, mentre assiste (e noi con lui) alla sua lenta agonia, col sangue che fuoriesce ovunque.

Dopodiché, come il protagonista de La guerra di Piero di Fabrizio De André (una canzone che ricorda terribilmente questo film), si rende conto di avere davanti un essere umano come lui, uno “che aveva il tuo stesso identico umore, ma la divisa di un altro colore”: cerca disperatamente e inutilmente di salvarlo, per poi promettergli che porterà la notizia alla moglie. In questa lunga e insostenibile scena c’è l’essenza del film, che è poi l’essenza di ogni film anti-militarista: la guerra è una lotta per la sopravvivenza che non risparmia nessuno, una regressione dell’uomo allo stato belluino (il primo che spara si salva, chi esita muore), qualcosa di totalmente spaventoso e inutile che separa l’essere umano dai suoi fratelli solo per una divisa differente.

E questo è soltanto un pezzo del vasto campionario di atrocità mostrate, fra corpi dilaniati e arti mozzati, altri schiacciati dai carrarmati, altri ancora bruciati dai lanciafiamme o asfissiati dal gas, o più semplicemente colpiti da una pallottola e lasciati a morire nel fango (ma pensiamo anche alla tremenda sequenza nell’ospedale militare). Perché la melma, oltre al sangue, è l’altro elemento cardinale del film di Berger: mentre i soldati vomitano e defecano, oppure arraffano tutto il cibo possibile durante l’invasione di una trincea nemica, tutto è fango, fumo e paura, mostrati in modo così epidermico da mettere a disagio lo spettatore.

La trincea è il luogo d’azione principale della vicenda, poiché la Grande Guerra fu innanzitutto una guerra di trincea, ricostruita dagli scenografi con la maestosità di un kolossal e un’attenzione certosina ai dettagli – è possibile che Berger si sia ispirato al celebre 1917 di Sam Mendes, anche per la presenza reiterata dei piani-sequenza sui soldati che si muovono nel dedalo di legno, fango e filo spinato. Così come ricchi sono il dispiegamento di armi, tra fucili, granate e mitragliatrici (con spari ed esplosioni live), e le divise dei militari. La regia ricorre poi ampiamente all’utilizzo del montaggio alternato, per cui alle vicende dei soldati al fronte – coi volti segnati, lividi e sporchi – sono volutamente contrapposti gli eleganti interni dove si riuniscono i politici tedeschi (fra cui il personaggio storico Erzberger, interpretato da Daniel Brühl) e francesi per negoziare la pace, fra abiti ampollosi e discorsi retorici, sulla pelle dei ragazzi che muoiono combattendo, e i cui rapporti sono molto più veri e autentici.

Perché ogni war-movie, in fondo, è un film di morte ma anche un film di fratellanza, basato cioè su un forte legame virile e cameratesco fra i soldati della stessa nazione: un legame che va oltre ogni sofferenza, ed è destinato a durare anche quando gli ideali per cui erano andati in guerra vanno in frantumi.