Entrare in un film di M. Night Shyamalan equivale sempre un po’ ad accettare di lasciarsi intrappolare. Sì perché da sempre il regista gioca con la sovversione delle aspettative del pubblico, generando spesso la sensazione di trovarsi dentro ad una storia dalla quale non si hanno più le coordinate per uscire, non riuscendo più a prevedere come questa si concluderà.
Hai le chiavi per entrare ma non quelle per andartene. Un po’ come il protagonista di questo film, Cooper (un ottimo Josh Hartnett qui alla prova della maturità, in un autentico e potenziale twist di carriera) un normale padre di famiglia sulla quarantina che accompagna la figlia Jody appena adolescente ad un concerto di una popstar, Lady Raven (intrepretata dalla figlia Saleka Shyamalan), che si trova invischiato in una gigantesca e complessissima caccia all’uomo che ha nel concerto stesso l’esca per attirare un serial killer che pare imprendibile.
Il punto non sarà tanto scoprire chi è il killer, come ben sa chi si approccia alla visione dopo aver visto il trailer, già densamente spoilerante, questo snodo infatti lo si capirà dopo pochi minuti dall’inizio del film, il punto è proprio la trappola, come dichiarato in effetti fin dal titolo, che a ben vedere cela ben più di una dichiarazione di intenti rivelandosi quasi come una dichiarazione di poetica.
Di trappole si parla infatti sempre nel cinema di Manoj Nelliyattu Shyamalan. Una trappola è un meccanismo che blocca, impedisce, spesso svia, devia, elude, sposta l’attenzione, può allontanare dalla verità o più spesso disvela l’esistenza di più verità e di molteplici punti di vista.
Certamente è qualcosa che, nella ricerca di una via di uscita, aiuta a mettere in luce molti aspetti dell’animo dell’intrappolato, sia esso un fantasma inconsapevole, un uomo che scopre di avere poteri straordinari, il gestore di un residence, un uomo di chiesa arreso alla vita, qualcuno che cerca di sfuggire da una tossina mortale o magari da una spiaggia o da un villaggio, dai quali non sembra esserci possibilità di andarsene, solo per citare alcuni dei magnifici e stratificati film del regista: essere bloccati ma saper vedere al di là, oltre, qui si situa la chiave di tutto.
Il killer, con le sue ossessioni e i suoi fantasmi, che certamente sono a loro volta una gabbia, una trappola nella trappola, riesce infatti a vedere e a prevedere ogni passo degli agenti che tentano di bloccarlo, finendo quasi per irriderli nella loro incapacità di vedere davvero, guardando solo schermi.
Le telecamere infatti sono posizionate in ogni angolo del palazzetto dove si svolge il concerto, lo cercano, vorrebbero identificarlo, tentano di braccarlo, dissezionano e indagano lo spazio come già facevano quelle Omicidio in diretta di Brian De Palma (soprattutto lo Shyamalan più teorico deve molto al suo cinema, qui citato platealmente con una doppia messa a fuoco “impossibile” fra primo piano e sfondo di chiara marca depalmiana), mentre il killer, aggirandosi fra stanze e corridoi, tra centinaia di agenti armati, si costruisce vie d’uscita.
I punti di vista e di ripresa ulteriormente si moltiplicano grazie alle migliaia di cellulari presenti al concerto, con i quali gli adolescenti che sono lì continuamente interagiscono, postano, condividono e rilanciano frammenti della loro realtà, mentre per il killer, il telefonino è solo un mezzo per tenere sotto controllo un ostaggio: come vedremo però, con una geniale trovata del regista, sarà proprio lo scarto generazionale fra questa diversa percezione e utilizzo del cellulare, a costruire una possibile salvezza per l’ostaggio.
Sempre di questo scarto si può parlare quando osserviamo il padre al concerto, imbarazzante e tuttavia quasi tenero mentre cerca di capire le esclamazioni e il gergo dei ragazzi, cercando in maniera un po’ goffa di stare al passo di sua figlia. Quel senso di disagio che prova, in un contesto che non gli è proprio, già insinua dubbi e mostra crepe in un equilibrio generale sempre più instabile.
Trappole, segni, storie dentro ad altre storie, protagonisti dichiarati e nascosti, in una poetica che mette insieme uno sguardo lucidissimo sul mondo che ci circonda e un lavoro di costante rimaneggiamento di codici e meccanismi di funzionamento dei generi cinematografici. Il cacciato diventerà cacciatore, ridiventerà cacciato per poi nuovamente cacciare, in un susseguirsi di ribaltamenti di fronte che sono lo specchio rotto di una realtà troppo complessa per essere rinchiusa, incasellata (intrappolata?) in ruoli codificati.
Scoprire se e come “il macellaio”, così è chiamato il killer, riuscirà a fuggire dal concerto è, a questo punto, solo uno dei piaceri che ci regala il film di Shyamalan, impegnato soprattutto a lavorare su questo personaggio e sulla sua capacità di abitare un ruolo, duplice come si vedrà, stretto fra l’affetto familiare e la metodica brutalità criminale, senza che alcuna crepa possa farli venire a contatto, senza che i due mari si mescolino mai: occorre “tenere separate le due vite”, come lui stesso si dirà.
Primi e primissimi piani che svelano dunque il volto e la sua maschera, anzi, come già fu con Unbreakable (2000) Split (2016) e Glass (2019) soprattutto, volti che superano e trascendono il concetto stesso di maschera, assumendo in sé le molte facce delle loro stratificata molteplicità.
Uomini che nascondono più vite e volti che richiedono affetto e fiducia per essere creduti, volti infine che sono essi stessi vere e proprie trappole dentro le quali vivono le indomabili inquietudini di un killer ad un tempo violento e fragilissimo, i cui sguardi si trasfigurano attraverso l’occhio dello spettatore che cerca di tenere insieme tutta la complessità del mondo che il regista gli sta svelando davanti.
Così, intrappolati noi stessi in un thriller che non ci permette di provare pietà per un efferato assassino e che al contempo ci fa desiderare che non venga mai catturato, con la solita smisurata maestria Shyamalan scrive un altro capitolo di una filmografia sempre più decisiva e importante nella storia del cinema contemporaneo.