Nonostante il pedante didascalismo soprattutto nel finale, quasi a chiarire ogni passaggio lasciando comunque alcuni aspetti oscuri e non del tutto convincenti, attualizzare lo storico personaggio di Candyman creato da Clive Barker e portato sullo schermo da Bernard Rose ormai trent’anni fa è un’operazione assai interessante che pone la regista Nia DaCosta (Little Woods) tra le autrici più audaci della nuova scena afroamericana. Con il contributo di Jordan Peele alla sceneggiatura, il sequel del boogeyman spirito di un nero libero linciato per aver messo incinta una bianca a fine Ottocento ora pronto a uccidere chiunque pronunci il suo nome davanti a uno specchio, si carica di quei toni afrosurreali che costituiscono la cifra stilistica dell’autore di Scappa – Get Out e Noi inserendo il film nel nascente filone BLM Horror.
Caratteristica di questo cinema è raccontare la situazione sociale nera statunitense attraverso toni orrorifici ma non spaventevoli che esaltino l’irrealtà e la violenza dell’esperienza nera oggi, senza tralasciare un’aspra e spesso ironica critica verso il sistema nazionale e certi atteggiamenti passivi della comunità nera. Un approccio fortemente ideologizzato che fa dell’impegno politico il punto di forza e differenziazione da altre opere genericamente etichettate come horror.
Ripartendo dal medesimo ma ormai gentrificato Cabrini-Green, quartiere periferico di Chicago in cui la studentessa bianca Helen Lyle svolgeva ricerche sulla leggenda urbana dell’uomo con l’uncino nel film del 1992, DaCosta amplia e sviluppa maggiormente il suo villain conferendogli quello spessore assente nel capitolo precedente che finiva per rendere il personaggio una variante di minaccioso “uomo nero” frutto di un antico e latente razzismo.
Il nuovo Candyman è l’incarnazione del dolore e dei soprusi subiti dagli afroamericani, un inconfessabile e impronunciabile desiderio di vendetta celato a forza nel profondo (le cantine del quartiere) le cui conseguenze altrimenti sarebbero letali. L’antieroe morto nel primo capitolo torna allora a rivivere periodicamente in ogni nero vittimizzato e brutalizzato in primis dalla polizia i cui atteggiamenti faziosi e scorretti sono qui mostrati in tutta la loro crudezza, segno più che mai evidente dell’influenza che #BLM ha assunto non solo sul piano politico e sociale, ma anche e soprattutto culturale.
Proprio questo aspetto rivela però il lato più fragile di Candyman: le vittime del mostro sono qui solo bianchi, generica e controproducente presa di posizione che non fa distinguo tra colpevoli e innocenti rischiando pericolosamente di scivolare in una forma di “razzismo di ritorno” che il nuovo cinema afroamericano da sempre ripudia. Certo c’è l’attenuante metafora del generico sfruttamento della cultura nera da parte caucasica, che ne consuma i prodotti (dischi, film, libri, arte, ecc.) il più delle volte senza la dovuta comprensione e rispetto alla base della conoscenza - “amano il nostro lavoro, non noi”.
I bianchi giocano a invocare Candyman perché in fondo non ci credono mentre il protagonista Anthony, artista afroamericano in cerca di nuove idee per le proprie creazioni, compie ricerche e un lungo viaggio a ritroso nel passato personale e collettivo per capire e carpire la fonte della sua ispirazione. La riscoperta della propria storia è uno dei cardini della coscienza nera, troppo a lungo oppressa da un sistema razzista le cui conseguenze sono visibili ancora oggi nello spirito quanto nel corpo, come dimostra la graduale trasformazione cronenberghiana del ragazzo una volta punto dall’ape, insetto associato a Candyman. Senza coscienza storica l’artista (e l’uomo) è niente,
uno sfruttatore di temi e cliché che diano celebrità, in una ricerca di effetto che spesso sfocia nel cattivo gusto o nel sensazionalismo. Non è un caso allora che il titolo dell’opera di Anthony sia “Say My Name” e che lui stesso si gongoli del fatto che il gestore della galleria d’arte ospitante sia stato trovato morto davanti alla sua installazione, convinto che questo gli porterà quel po’ di fama. È la trasposizione del pensiero warholiano nell’era dei social network, dove l’apparenza e l’istantaneità producono visibilità anche a scapito del contenuto.
Ma non si può non rintracciare in quel “Di’ il mio nome” un’eco di quel Say Their Name, slogan gridato a gran voce nelle manifestazioni pacifiste in seguito all’uccisione per mano di agenti di George Floyd e altri afroamericani innocenti in questi ultimi anni. Ecco allora che la realtà nera contemporanea torna prepotentemente sul grande schermo dopo più di un anno quasi riprendendo il discorso da dove si era interrotto causa pandemia, richiamando l’attenzione anche internazionale su questioni di scottante attualità.