Volendo trovare un denominatore comune nella filmografia di Joseph Losey, ci si scontra inevitabilmente col mitologico Letto di Procuste: quel mito greco secondo cui gli sventurati venivano collocati su una tavola di ferro, e stirati a forza se troppo corti o amputati se gli arti sporgevano dal letto. Fuor di metafora, il cinema di Losey è eterogeneo e inclassificabile, per cui ogni tentativo di ingabbiarlo in un genere o in uno stile risulta una forzatura: dal noir al melodramma, dal thriller psicologico al war-movie, dal film storico al dramma kafkiano fino alla fantascienza, il grande cineasta americano ha sviscerato i vari generi in modo assolutamente personale, con uno stile ricercato e un occhio di riguardo a personaggi dalla psicologia contorta. Il noir Sciacalli nell’ombra (1951) appartiene al periodo statunitense di Losey, prima che il maccartismo – la “caccia alle streghe” verso coloro che erano accusati di essere comunisti – lo costringesse all’esilio in Europa, dove muovendosi fra l’Inghilterra e il Continente diresse i suoi film più famosi.

Sciacalli nell’ombra (The Prowler, “il predatore”, recita il titolo originale) è sceneggiato da un’altra vittima illustre del maccartismo, lo scrittore Dalton Trumbo, che per tale motivo non poté firmare la sceneggiatura, e come aiuto regista c’è Robert Aldrich, uno dei futuri innovatori del cinema hollywoodiano. Protagonista della storia è Webb Garwood (Van Heflin), un poliziotto che durante una ronda notturna deve recarsi assieme a un collega in casa di una donna, Susan Gilvray (Evelyn Keyes), la quale sostiene di essere stata spiata dalla finestra. La ragazza, sposata a un conduttore radiofonico, desta subito l’attenzione di Webb, che torna a trovarla più volte fino a quando i due diventano amanti. Il poliziotto, avendo scoperto il testamento del marito, ne progetta l’omicidio a insaputa della donna, e attua il suo piano uccidendo l’uomo e facendo passare il delitto per un incidente. Assolto al processo, grazie anche alla complicità di Susan che nega di conoscerlo, sposa la ragazza e va a vivere con lei: la gravidanza della donna scombussola però i loro piani, poiché la nascita del bambino desterebbe sospetti, così i due fuggono a Calico, una città fantasma nel deserto californiano, ma la tragedia è dietro l’angolo.

Nel suo periodo americano, Losey si dedicò principalmente al noir – non solo The Prowler, ma anche Linciaggio, La grande notte e M, remake dell’omonimo capolavoro di Fritz Lang – un genere che riprenderà anche in Inghilterra per esempio col magnifico Giungla di cemento. Ma già le prime opere americane, propedeutiche alle successive e più celebri, mostrano una certosina attenzione alla costruzione psicologica dei personaggi e ai loro rapporti (che sarà uno dei tratti distintivi di tutto il cinema di Losey), nonché una ricercatezza visiva e narrativa: una fotografia in bianco e nero dai contrasti quasi espressionisti, con luci e ombre che dipingono i volti dei protagonisti e ne riflettono le sfumature interiori, una macchina da presa che sta addosso ai personaggi e li segue passo per passo nell’evolversi della vicenda, una colonna sonora incalzante.

Sciacalli nell’ombra è un hard boiled di classe, che riprende nell’impostazione iniziale il meccanismo di un capolavoro come La fiamma del peccato: i due amanti, un’eredità da incassare, un marito di troppo, un delitto destinato a essere scoperto. Losey però va oltre la semplice mimesi, e anzi sovverte il ruolo dei personaggi: se nel film di Billy Wilder era la splendida Barbara Stanwyck a progettare l’omicidio del marito coinvolgendo Fred MacMurray in una spirale delittuosa senza fine, qua il motore non è la femme fatale (che di fatale, vedremo, non ha molto), bensì l’uomo, il poliziotto-criminale interpretato da un roccioso Van Heflin, coi suoi tipici lineamenti marcati che ne accentuano la personalità cattiva e nerissima. The Prowler è uno dei primi film in cui compare la figura del poliziotto corrotto, insieme a un altro classico come Sui marciapiedi di Otto Preminger: una figura controversa che sarà ricorrente nell’hard boiled successivo, ma che per l’epoca era abbastanza una novità, forse nata come risposta al maccartismo, come una sorta di contestazione alle autorità, come una manifestazione di sfiducia dilagante nelle istituzioni.

Sciacalli nell’ombra è costruito quasi interamente attorno ai due protagonisti, sfumati e complessi come d’abitudine per Losey, mentre tutti gli altri personaggi (il collega poliziotto con la moglie, il medico) sono ridotti a comprimari, funzionali soltanto all’evolversi della vicenda – e persino il marito (la cui voce che sentiamo alla radio è, nella versione originale, quella di Dalton Trumbo) compare in poche inquadrature, durante l’omicidio. Van Heflin era un attore di punta della Hollywood classica, che negli anni Cinquanta divenne famoso in particolare per western come Il cavaliere della valle solitaria e Quel treno per Yuma, mentre Evelyn Keyes era all’epoca la moglie di John Huston, produttore non accreditato del nostro film, ed ebbe qui uno dei suoi ruoli più rilevanti.

Più che di femme fatale, qua bisognerebbe parlare di homme fatal, visto che è dall’animo malvagio di Webb che tutto ha inizio: è lui a sedurla, forzando le sue iniziali resistenze, ed è lui a uccidere Mr. Gilvray a insaputa di Susan, che al processo lo copre soltanto perché innamorata e convinta della sua buona fede. Tra i due amanti si crea un rapporto di dipendenza patologica e sudditanza – un elemento che sarà ricorrente nel cinema di Losey (pensiamo a Il servo e Cerimonia segreta) – ma che il regista sovverte rispetto a topos come quelli de La signora di Shanghai di Orson Welles, rendendo l’uomo il personaggio dominante, colui che ordisce l’intrigo; la donna è invece una figura debole, che si innamora, ma che saprà rivolgersi alla legge una volta scoperta la verità – una verità che forse, in fondo, ha sempre sospettato, senza però trovare il coraggio di ribellarsi.

La prima parte è costruita come un classico noir urbano, ambientato nella provincia americana, dove la storia d’amore proibita si costruisce man mano, con un ritmo lento ma ammaliante, come da tradizione del genere hard boiled. Il noir si intreccia costantemente col melodramma, evolvendosi dall’innamoramento all’omicidio e alle nozze, quando tutto sembrava andare per il meglio, fino al topico granello di sabbia che fa saltare l’ingranaggio. E, a questo punto, la genialità di Losey e degli sceneggiatori consiste nel trasformare Sciacalli nell’ombra in una sorta di western contemporaneo, con tutta la lunga parte conclusiva ambientata in una ghost-town sperduta nel deserto, fra rocce, polvere e baracche. Con un andamento che riecheggia per certi versi il finale di Una pallottola per Roy di Raoul Walsh, l’homme fatal andrà incontro al suo tragico destino, inseguito dalla polizia su una roccia montuosa: alla nascita del bambino (dunque, la vita), si contrappone l’inevitabile morte di Webb, come un bandito nel selvaggio West.