Sciuscià secondo De Sica
Io facevo il giornalista. Mi avevano offerto di far parte del consiglio direttivo di una rivista cinematografica, che ebbe vita molto breve, quattro o cinque numeri, ma già al terzo me n’ero andato, perché il giornale faceva della politica e in modo piuttosto violento chiedendo la fucilazione di questo e di quello (Luisella Beghi ha sempre creduto che io fossi responsabile o corresponsabile degli attacchi a lei). Altro che fucilare, dissi, qui bisogna fare del cinema. Comunque, per il primo numero della rivista mi era stato chiesto di scrivere un articolo per una nuova rubrica intitolata: “Quali film vorreste girare?”. Io sapevo molto bene quale film mi sarebbe piaciuto girare e scrissi la prima idea di Sciuscià, corredando il lavoro con le immagini di un fotografo.
Erano i giorni che sapete e ne avevo già visto abbastanza per sentirmi profondamente turbato, sconvolto; le donne che andavano in camionetta con i soldati, gli uomini e i ragazzini che si buttavano in terra per afferrare le sigarette o le caramelle. Agli adulti pensavo meno che ai bambini; e pensavo: “Adesso sì che i bambini ci guardano!”. Erano loro a darmi il senso, la misura della distruzione morale del paese: gli sciuscià. Ne conobbi due: Cappellone e Scimmietta. Scimmietta dormiva in un ascensore di via Lombardia, ma aveva una nonna cui voleva molto bene; fu questo calore familiare a salvarlo. Cappellone invece era figlio di nessuno, totalmente solo nel mondo con la sua grossa testa deforme di rachitico; più tardi rubò, finì in carcere.
Allora erano due ragazzetti di dodici o tredici anni e componevano una sorta di bizzarra associazione. Lavoravano in via Veneto (Scimmietta con una mantellina addosso e nudo sotto, tranne un paio di calzoncini laceri), pulivano le scarpe in fretta e furia e poi, racimolate tre o quattrocento lire, correvano su a Villa Borghese, ad affittare un cavallo. Più tardi, nella stesura del soggetto, Zavattini portò il personaggio del cavallo a una compiutezza poetica; ma nel fondo restavano le reali, stravaganti cavalcate di Scimmietta e Cappellone. Peccato che né l’uno né l’altro, sicuramente, abbiano visto il film. Andavano a vedere i cavalli, il calcio, non certo il cinema. Cappellone, peraltro, finì in prigione prima che il film uscisse; e Scimmietta un giorno venne a chiedermi dei soldi per andare sulle montagne abruzzesi a fare il pastore. Non rividi mai più né l’uno né l’altro.
Le fotografie di Cappellone e Scimmietta apparvero nel primo numero di “Film d’oggi”. Sei mesi dopo, al principio del 1946, Paolo Tamburella, direttore dell’Alfa Film, mi disse che voleva fare un film sugli sciuscià e mi dette un soggetto orribile. Invitai Zavattini a pensare a un soggetto da contrapporre all’altro. Zavattini studiò il problema, visitammo insieme ambienti e persone, tra l’altro il carcere di Porta Portese che poi nel film venne ricostruito con impressionante fedeltà. Una settimana più tardi il soggetto nuovo venne presentato a Tamburella, che lo accettò senza riserve. Si affacciò il problema degli interpreti. Attori o non attori? Vorrei dichiarare a questo punto che in me la scelta dei cosiddetti attori ‘presi dalla strada’ non è mai preordinata, non è la conseguenza di un atteggiamento rigido. Esistono personaggi che richiedono attori professionisti, ne esistono altri che possono vivere soltanto con un certo volto preciso, insostituibile, reperibile unicamente nella vita reale.
Vittorio De Sica, Gli anni più belli della mia vita, “Tempo”, n. 50, 16 dicembre 1954
Zavattini e gli altri: la sceneggiatura
Sciuscià nacque da un’idea di alcuni, De Santis, Puccini ecc., che avevano fatto un’inchiesta fotografica su questi ragazzi. Poi Paolo Tamburella ci ha riunito con un certo ordine, perché ci trovavamo tutti il mattino a via Po 10, io, De Sica, Zavattini, Adolfo Franci, Cesare Giulio Viola e Pagliero. A un certo momento Pagliero viene chiamato in Francia a fare l’attore e allora ci abbandona. Noi siamo andati avanti (il pomeriggio scrivevo quello che s’era detto la mattina) in modo molto metodico, grazie a Tamburella. C’è stata una discussione piuttosto violenta sul finale. Anche l’altro bambino doveva morire, nell’acqua, come dissolvendosi. Viceversa Tamburella non voleva questo suicidio perché ‘Monsignore’ non voleva. Ma la verità è che noi non sapevamo chi era questo monsignore che si muoveva dietro a Tamburella. Ed era quel monsignor Edward Prettner Cippico famosissimo, che a un certo momento fu arrestato per grosse truffe! E infatti il finale, a rivederlo, mi sembra che sia abbastanza mediocre, con quel ponticello fatto in teatro. Certo che è uno dei pochi film in cui, andando a vederlo dopo averlo scritto, ho trovato delle scene più belle di come le avevo immaginate. De Sica nel trattare i bambini era straordinario.
Sergio Amidei, L’avventurosa storia del cinema italiano, vol. I, a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna 2009.
Il mio sodalizio con De Sica non poteva che continuare perché De Sica mi aveva affidato un ruolo, nella sua evoluzione, molto importante, e io lo avevo preso con responsabilità e entusiasmo.
Era un mio interlocutore quasi naturale. Ci sono stati dei film nati così, improvvisamente, dalla lettura di un libro, caso tipico Ladri di biciclette, e ci sono stati dei film come Sciuscià che invece si è mosso indipendentemente da me. Su una iniziativa, un soggetto di persone come Tamburella, Viola. Viola cominciò a scrivere una sceneggiatura e siccome io ero in quel momento impegnato altrove – se non mi sbaglio con Blasetti e con Genina – non avevo potuto partecipare all'inizio della cosa. Ma vennero da me e io feci uno dei miei exploit, cioè nel giro di quarantott'ore consegnai il soggetto. Potevo anche in ventiquattro. Un soggetto di una ventina di pagine, che è nella sostanza il soggetto del film. C'erano altri interessati a questa impresa, compreso credo il regista che poi è andato in Francia, Pagliero, e poi Amidei, e credo Guerrieri, De Concini, ma il soggetto è stato un fatto esclusivamente mio, assolutamente, senza ingerenze di anima viva. Lo scrissi in poche ore, lo consegnai e fu varato. Io poi ritornai nel campo della sceneggiatura e partecipai. Mi fu fatto vedere il film, poi ci furono i miei primi approcci come montaggio. Interventi che in seguito sarebbero diventati massicci.
Cesare Zavattini, in Giacomo Gambetti, Zavattini mago e tecnico, Ente dello Spettacolo, Roma 1986
Un minimo merito, nella vicenda della nascita di Sciuscià, me lo posso attribuire anch’io. Ci fu un momento in cui Vittorio, sfiduciato, senza lavoro, in difficoltà per trovare chi finanziasse il film, voleva abbandonare tutto. Parlava di tornare al teatro, di far di nuovo Compagnia con sua moglie, che glielo aveva proposto. Non potevo sopportare l’idea che tornasse a lavorare con lei, questo è vero, ma sarebbe andato perduto anche il suo sogno di un cinema diverso, avrebbe rinunciato forse per sempre a realizzare un progetto in cui credeva così profondamente.
Gli dissi tutto questo, ma non gli nascosi anche il mio desiderio di stare con lui, l’orrore per la prospettiva di doverlo lasciare con la signora Rissone non solo la notte, ma anche tutta la giornata o la maggior parte. Ero egoista? Volarono parole grosse. Ci separammo come se il nostro rapporto fosse finito per sempre.
Stemmo ventiquattr’ore senza vederci. Vittorio tornò da me il secondo giorno e, con un’aria burbera e impersonale, senza alludere minimamente al nostro dissidio, mi annunciò che stava andando con Zavattini a fare i sopralluoghi per Sciuscià. […]
Si deve alla loro intesa, alla felice capacità di lavorare insieme che Vittorio e Zavattini avevano raggiunto, se il film fu concepito in modo da diventare una delle opere che aprirono un nuovo capitolo nella storia del cinema
Maria Mercader, De Sica & Zavattini. Parliamo tanto di noi, Editori Riuniti, Roma 1997.
La sceneggiatura fu portata a termine in due mesi, dalla metà di luglio alla metà di settembre 1945. Si lavorava in un vasto appartamento di via Po, una delle più signorili e amene strade di Roma con palazzi del tardo Ottocento e rigogliosi giardini. Si udiva qualche volta il suono di un pianoforte, la voce calda di una ragazza che accompagnava i solfeggi... Codesta vita signorile un po’ fuori del tempo e in aperto contrasto con la realtà di oggi, bastava a distrarci dal lavoro sempre penoso della sceneggiatura. Nei momenti di sosta, Cesare Giulio Viola disegnava svelte figurine di donna sul retro dei ‘copioni’. De Sica accendeva una sigaretta fissando gli occhi sulla casa dirimpetto. Amidei dissertava di politica col calore di un neofita…
Adolfo Franci, De Sica & Zavattini. Parliamo tanto di noi, Editori Riuniti, Roma 1997.
Dare un giudizio su Zavattini? E come è possibile, l’ho conosciuto per talmente tanti anni! Sì, forse con l’andare del tempo, come del resto accade a tutti noi, sono venute fuori le sue negatività, probabilmente anche io oggi sono più bizzoso, più zitello e più arcigno di quanto non lo fossi allora.
Comunque io non posso che ricordare Zavattini come un uomo pieno di talento, di temperamento. Di lui si potrebbe dire all’americana che aveva il gift e non l’acknowledgment. Creava il realismo e lo spolverava sempre di questa sua poesia che forse oggi, a distanza di tempo, può sembrare a volte profondissima e a volte zuccherosa. Comunque, trovò un’accoppiata perfetta con De Sica che era particolarmente sensibile a questo suo realismo poetico.
Il rapporto tra De Sica e Zavattini al tempo di Sciuscià era come un rapporto tra due amanti, qualche volta rabbioso, irritato, possessivo e geloso, sì, anche geloso dei risultati. Erano come una coppia di amanti che ogni tanto cercano di stabilire chi dei due è più bello dell’altro, chi dei due deve essere più amato dall’altro. Il rapporto era caratterizzato da una certa passionalità. De Sica ogni tanto tentava di dare dei colpi di coda, di rivolgersi da altre parti, di trovare altri sceneggiatori, poi alla fine subentrava il condizionamento che nasce sempre nelle simbiosi come la loro, che è poi lo stesso tipo di condizionamento dell’amante con cui uno si trova bene, fuso, per cui è preso dal timore di cambiare. Se tra i due apparentemente il più dipendente dall’altro poteva sembrare De Sica, in realtà non potrei proprio dirlo, anzi forse era il contrario.
Ennio De Concini, L’avventurosa storia del cinema italiano, vol. I, a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna 2009.
Sciuscià aveva un copione perfetto, una sceneggiatura rigidissima, lavoratissima, perfetta. Solo che era congegnata sulla verità. Quei quattro signori si erano documentati a lungo, e avevano preso le storie degli sciuscià veri, a via Veneto, alla stazione... Tant’è vero che io che dormo nell’ascensore ("Dove dormi?”. "A via Lombardia”. “Ma dove?”. “Dentro un ascensore”). Era vero, c’era uno sciuscià che lo chiamavano Scimmietta, uno molto simpatico, che faceva così. Gli sceneggiatori sono venuti sul set pochissimo, solo i primi giorni. Venivano invece sul set tutti i registi italiani, Visconti spessissimo. De Sica era uno dei pochi che lavorava. Venivano a vedere, da amici.
Franco Interlenghi, L’avventurosa storia del cinema italiano, vol. I, a cura di Franca Faldini e Goffredo Fofi, Cineteca di Bologna 2009.