“Parla della morte”. Queste le parole che danno inizio al film di Agostino Ferrente (L’orchestra di Piazza Vittorio, Le cose belle) che parla di Napoli, di adolescenti e anche di morte. La morte di Davide Bifolco, sedicenne ucciso da un proiettile esploso dalla pistola del carabiniere Gianni Macchiarolo, alle 2 di notte del 5 settembre 2014, tra le strade del Rione Traiano. Le sentenze parlano di un colpo partito accidentalmente, i familiari lamentano l’inquinamento delle prove e una pena totalmente inadeguata (4 anni e 4 mesi, ridotti a 2 anni con pena sospesa dalla Corte d’appello) per la persona colpevole di avergli portato via un figlio nell’età migliore. Il fratello maggiore di Davide, Tommaso, morì d’infarto qualche settimana dopo la sentenza lasciando una famiglia completamente distrutta.
Ferrente dedica il film alla memoria di Davide e Tommaso, raccontando la cronaca tramite il voice over in apertura e titoli in chiusura, ma il centro della narrazione è altro. È l’amicizia tra Pietro e Alessandro, due sedicenni che, come Davide, vivono nel Rione Traiano. Due persone diverse, entrambe legate dalle difficoltà di un territorio in cui è davvero possibile morire in modo così assurdo, due ragazzi che affrontano la propria vita con la consapevolezza di non avere le medesime possibilità di altri, ma si permettono ugualmente di sognare, inseguendo quel riscatto sociale che si fa molto più complicato nel momento in cui si decide di voltare le spalle a una forma di potere indotta da soldi facili e armi e si rifiuta di diventare come la “troppa gente sporca” che popola il quartiere.
In Selfie la figura dell’operatore scompare, o meglio coincide con quella dei due protagonisti: la macchina da presa (l’iPhone) viene messa nelle mani di Alessandro e Pietro con la volontà di raccontare la parte sana del Rione e di tutta Napoli. E non ci troviamo certo di fronte a un rifiuto di Gomorra, tutto quello a cui ci ha abituati il cinema che racconta Napoli negli ultimi anni si sente forte e chiaro, semplicemente qui c’è un interesse differente, quello di catturare e restituire la volontà, sana e quasi inafferrabile, di costruire qualche cosa di buono da parte di chi vive in una realtà dimenticata da tutti e considerata incapace di produrre altro che piccoli camorristi.
La scelta del formato di ripresa in videoselfie è funzionale al contesto che si vuole rappresentare: i giovani ragazzi sono chiaramente a loro agio con uno strumento che ben conoscono e maneggiano quotidianamente, così l’obiettivo diventa una sorta di specchio dove non sono solo i protagonisti ad essere riflessi, ma lo è anche ciò che gli sta attorno e compone la loro vita quotidiana. Gli sguardi in macchina sofferenti di Pietro e Alessandro simboleggiano la giovinezza tolta al loro amico Davide, ma anche e soprattutto le difficoltà e i problemi sociali della periferia di Napoli e delle periferie del mondo, che sono la causa scatenante di tali terribili eventi.
Il fatto che le immagini siano prodotte dagli stessi protagonisti in maniera relativamente spontanea è forse ciò che permette al film di catturare al meglio la positività e la bellezza che esiste all’interno del quartiere e al contempo le contraddizioni di un mondo dove l’istituzione è assente o negligente e nemmeno i genitori hanno gli strumenti per aiutare i propri figli. Un mondo circondato da mura ideali, che paiono invalicabili, al di là delle quali, con la forza di volontà e un po’ di immaginazione si può riuscire a vedere oltre. Proprio come fece Leopardi, al quale Alessandro sceglie di rendere omaggio nel film.