La consuetudine di usare il “genere” per parlare allo spettatore di qualcos’altro non è di certo un’invenzione dei nostri tempi, anzi possiamo dire che sia nata col cinema moderno e contestatario. È innegabile tuttavia che negli ultimi anni, sempre più, autorialità e grottesco si sono spesso mescolati, ad esempio per mettere in scena una satira dei nostri tempi e dei costumi borghesi.

Questo accade in vari Paesi occidentali, e in Europa si sta diffondendo una sorta di “corrente scandinava”, a cominciare dallo svedese Ruben Ostlund degli acclamati The Square e Triangle of Sadness, ma senza dimenticare il danese Thomas Vinterberg (Riunione di famiglia e Un altro giro, per citarne due); c’è poi un nome meno altisonante ma altrettanto promettente, cioè il norvegese Kristoffer Borgli, che dopo aver diretto numerosi cortometraggi ha debuttato nel lungo con Sick of Myself (2022, presentato a Un Certain Regard a Cannes, e ora al cinema), e sta già portando il suo secondo film – Dream Scenario (2023) – in numerosi festival.

Sceneggiato dallo stesso Borgli, Sick of Myself (“malata di me stessa”) ha come protagonista Signe (Kristine Kujath Thorp), una giovane ragazza di Oslo che lavora come barista e convive con il compagno Thomas (Eirik Saeter), un artista che ha il vizio di rubare oggetti da esporre nei propri lavori. Abituata a mentire per il solo gusto di farlo, Signe rimane scioccata quando soccorre una donna morsa alla gola da un cane, e inizia probabilmente a sviluppare una specie di gelosia verso la celebrità del fidanzato. Dopo aver visto per caso sul web che un farmaco russo ha prodotto orribili effetti deturpanti sulla pelle di alcune persone, decide di mettere in atto un piano folle: si procura tramite uno spacciatore una grande quantità di Lidexol e inizia ad assumerlo.

Gli effetti non tardano a manifestarsi, con la pelle del viso e del petto che le si copre di orribili piaghe: dopo il ricovero in ospedale, Signe si toglie la raccomandata bendatura e vede che il corpo è segnato e deformato irrimediabilmente. Grazie ai suoi selfie pubblicati in rete, la ragazza diventa una celebrità – proprio come voleva: viene intervistata da una rivista e addirittura finisce a fare la modella per un’agenzia dedicata a ragazze disabili. Ma gli effetti collaterali del farmaco sono irreversibili e inaspettati.

Da un regista che esordisce così in grande, con un film folle come Sick of Myself, c’è da aspettarsi di tutto. Perché Syk pike – questo è il titolo originale – sa essere tante cose assieme: innanzitutto non è una commedia, come è stato scritto da tante parti e come è furbescamente riportato sulla locandina, ma una satira drammatica eppure pregna di dark humor ma soprattutto è un body horror con tutti i crismi del genere (non adatto ai deboli di stomaco), un film di cronenerghiana memoria e che come i film del Maestro mette in scena orribili mutazioni corporee per parlare di alcuni aspetti della nostra società. 

Aspetti che non sono più quelli trattati decenni fa da Cronenberg (il quale rimane comunque attualissimo, vedasi il suo ultimo gioiello Crimes of the Future), ma che Borgli ha aggiornato per stare al passo coi tempi: il regista norvegese rielabora dunque Cronenberg, non solo nelle tematiche trattate ma anche nel tipo di cinema, poiché il body horror di Sick of Myself è slegato da ogni componente fantascientifica, bensì è legato ad aspetti realistici e a un dramma psico-sociologico, fra narcisismo estremo, disagio esistenziale e storie d’amore morbose.

Innanzitutto, parlando di una sostanza chimica dagli effetti così devastanti, come si può non pensare a certi farmaci pericolosi o addirittura alla famigerata droga (appunto russa) Krokodil? Il Lidexol (nome inventato, con un battage pubblicitario che ha creato un sito per renderlo più credibile) è un ansiolitico, e non viviamo forse noi nell’epoca degli psicofarmaci? Ma a Signe poco importa che tipo di medicinale sia, poiché lei è stata attratta dalle foto di persone rimaste sfigurate a causa di quelle pastiglie: e il suo narcisismo masochista è patologicamente spinto a livelli così estremi da accettare tanto dolore fisico e un corpo deturpato come unico mezzo per conquistare un po’ di celebrità.

Un paradosso (ma neanche troppo) che estremizza la moda dei nostri tempi, quella di essere famosi ad ogni costo, e ognuno come riesce: lei ha trovato questo modo per riuscirci, e non ha esitato a metterlo in pratica. La malattia di Signe ha una triplice valenza: fisica, mentale, e quell’essere “malati di sé stessi” a cui fa riferimento il titolo, un’assunzione bulimica di Ego per cui si fa qualsiasi cosa pur di essere al centro dell’attenzione. Lei bugiarda patologica, lui una sorta di cleptomane: del resto, c’erano tutti i presupposti per un disastro, verso cui tutti vanno a sprofondare.

La regia, che non lesina su dettagli sanguinari e scioccanti come ferite, bubboni e cicatrici (mentre l’immagine iconica di lei col volto bendato richiama il classico Occhi senza volto), utilizza uno stile molto particolare: asciutto ma ricco di pathos, sulle note di musica da camera, e soprattutto con un particolare uso del montaggio che accosta scene vere nella diegesi con altre frutto dell’immaginazione di Signe. Una su tutte, la scena cult dell’amplesso con Thomas mentre immagina il proprio funerale, ma anche gli incubi a occhi aperti sullo spacciatore contagiato e sul padre, e i suoi sogni di andare in televisione e scrivere un libro su sé stessa.

C’è poi un crescendo di paradossi – prima della parte finale, sempre più mostruosa e disperata – con la protagonista che finisce a fare la modella per un’agenzia inclusiva (c’è anche una ragazza affetta da micromelia), fra celebrità sul web e sulle copertine di riviste. Ma la celebrità ha un prezzo, e non si ferma a quello che ha già pagato. C’è infine anche una stoccata a quelle presunte e fasulle comunità che cercano di curare il corpo con sessioni in stile yoga, a cui anche Signe prende parte: ma le porte del baratro sono ormai spalancate per lei, nonostante l’onirica e misteriosa scena conclusiva.