Nome di punta della sezione Documenti e documentari, nonché ampiamente presente sui gadget del Cinema Ritrovato 2020, F.T.A. si preannuncia come una delle occasioni imperdibili per fare un salto nel passato novecentesco, rivivendo gli sconvolgimenti interni vissuti dagli USA durante la guerra del Vietnam. Girata nel 1972 da Francine Parker e prodotto da lei stessa, assieme a Jane Fonda e Donald Sutherland, la pellicola ebbe il pregio di catturare dal vivo il Free (o F**k: l’ambiguità è voluta) The Army Show, che vide i due attori hollywoodiani – assieme a Holly Near, Pamela Donegan, Michael Alaimo, Len Chandler, Rita Martinson e Paul Mooney – girare in tour le principali basi militari statunitensi, dentro e fuori i confini naturali del Nord America. L’obiettivo consisteva non solo nel mettere in scena uno spettacolo antitetico a quello militarista di Bob Hope (attaccando le alte sfere militari e contestando l’entrata degli USA nel conflitto), ma anche nel creare un legame tra i soldati animati dal malcontento verso la situazione in atto nello scenario asiatico.

Ora, quando si fa riferimento alle mobilitazioni pacifiste sul suolo statunitense contro la guerra in Vietnam e alla conseguente conflittualità nell’opinione pubblica americana, si tende – quasi per riflesso incondizionato – a tracciare una netta linea di demarcazione tra i movimenti civili per la pace e l’esercito (i cosiddetti GIs), come a postulare l’esistenza di due schieramenti opposti, ognuno dei quali irriducibile ad accettare l’idea dell’altro. Questa bipartizione non caratterizza solo il dibattito sul Vietnam, ma si applica sostanzialmente a tutti i conflitti del Novecento: da una parte la fetta progressista della popolazione civile, impegnata a sottolineare l’inutilità del conflitto bellico e a puntare il dito contro le scelte imperialiste dei governanti, dall’altra il corpo militare, compatto e impermeabile al dibattito sulla liceità della guerra, nel nome della fedeltà alla nazione. Ognuno dei due poli contrapposti ha creato nel tempo la propria narrazione, tesa a delegittimare le ragioni dell’avversario: da una parte, le accuse di disfattismo rivolte verso i movimenti pacifisti, dall’altra la raffigurazione del militare come puro oggetto meccanico, deumanizzato e dedito ad un cieco asservimento nei confronti dei propri superiori. Se poi risulta accettabile l’idea che una fetta della popolazione civile si schieri a favore della guerra, tali retoriche contrapposte rigettano totalmente la possibilità di tendenze pacifiste all’interno dell’esercito. Certo, la cinematografia statunitense sul Vietnam nei suoi prodotti più celebri ha saputo proporre figure militari capaci di mettere a critica la brutalità della guerra e le storture della gerarchia; tuttavia, salvo per pochi casi, difficilmente il personaggio in questione passa dalla critica teorica alla realizzazione di un’insubordinazione. Nel caso in cui ciò avvenga – e qui chiamiamo in causa il colonnello Kurtz – il personaggio non può non assumere un ruolo antagonista.

È proprio l'insubordinazione, la scelta di disubbidire agli ordini e di accettarne coscientemente le conseguenze, il tabù che non può venire trattato o incluso nelle narrazioni ufficiali: nel periodo storico contemporaneo o immediatamente successivo a un conflitto, porre l'accento su casi del genere, che disvelano l'imperfezione della macchina bellica, costituisce un atto contrario alla ragion di stato, con effetti disgregatori verso l'opinione pubblica. La storia della letteratura e del cinema ci aiuta a suffragare questa ipotesi: si pensi solo alla censura in cui incorse Curzio Malaparte con Viva Caporetto o alla tarda datazione delle pellicole che trattarono la Grande Guerra in un'ottica lontana dalle retoriche istituzionali. Da questa prospettiva, emerge ancora più chiaramente il valore di un documentario come F.T.A., il cui focus si rivolge direttamente sui GI a stelle e strisce, illuminandone le tensioni antibelliche e il disagio verso il proprio compito: è nelle affermazioni dei soldati intervistati, più che nei vaudevilles orchestrate da Jane Fonda e Sutherland, che si rintraccia il deterrente a schemi interpretativi fossilizzati ed eccessivamente semplicistici. Tra il frame del manifestante pacifista (possibilmente hippy) e quello del tenente colonnello Kilgore emerge insomma un sottobosco di coscritti dubbiosi, autocritici o addirittura refrattari verso il dovere militare, ben lontani dal ruolo di vuoti automi in cui li si vorrebbe incasellare.

Se le geniali distorsioni in chiave antimilitarista dello show di Bob Hope scatenano le risate degli spettatori, le dichiarazioni dei militari di stanza a Okinawa, che affermano la necessità dell'indipendenza degli abitanti dell'isola da ogni ingerenza nippo-americana, non possono non generare straniamento. Man mano che le interviste ai soldati e ai marines di Pacific Rim, Filippine e Hawaii si susseguono, il tratto comico del documentario sembra sbiadire dietro una coltre di tragedia collettiva, specialmente se si riflette sulle conseguenti punizioni disciplinari che gli intervistati affrontarono. Nell'episodio della contestazione avvenuta ad uno degli show dell'FTA, in cui i militari contestatori vengono pacificamente condotti all'uscita dai propri commilitoni, l'aria si appesantisce di un senso di ineluttabilità, dandoci la cifra del dissidio interiore dei presenti. In maniera più pungente di altre mobilitazioni artistiche, il Free The Army Show fece venire in superficie le divisioni e le diverse sensibilità di un organismo che l'opinione pubblica non solo americana percepiva come un tutt'uno indistinto.

Dal canto loro, le manifestazioni del dissenso e dell'insofferenza da parte dell'esercito statunitense verso il conflitto vietnamita non si limitarono alla cornice descritta dal documentario: negli stessi anni, il malcontento interno verso le politiche estere dei governi Kennedy e Nixon portò alla costituzione, nei pressi delle città che ospitavano i più importanti campi di addestramento, delle GI Coffehouses, centri di aggregazione rivolti ai militari dissidenti, in cui questi ultimi diedero vita anche ad una discreta pubblicistica anti-bellica. Dopo numerosi casi di arresti e cacciate dall’esercito subiti dai GIs che vi aderirono, le Coffehouses chiusero definitivamente al termine del conflitto, salvo poi rinascere con l’inizio del nuovo millennio, in coincidenza con i conflitti in Afghanistan e Iraq: a testimoniare che, in qualunque periodo storico, le frange di dissidenza verso un conflitto arrivano a toccare persino chi quel conflitto, volente o nolente, deve combatterlo.