Primo film italiano girato interamente in America, Smog è una delle grandi pellicole misconosciute del nostro cinema nazionale. Presentato nel 1962 in apertura al Festival di Venezia e presto venduto alla MGM in un pacchetto di titoli Titanus nel tentativo di risanare le casse esangui della società dopo Il gattopardo e Sodoma e Gomorra, il film di Franco Rossi è rapidamente sparito dalla circolazione fino a un’inattesa edizione DVD nel 2018.

Dimenticato dai più, il film si presenta oggi come un’opera da riscoprire e rivalutare, forse troppo avanti sui tempi e per questo ignorato allora da pubblico e critica, spiazzata da uno stile freddo e distaccato che rifiuta la comicità acida ma in fondo accomodante della commedia all’italiana in favore di una dimensione narrativa più affine alle atmosfere satirico-grottesche di Ennio Flaiano.

Ambientato durante le 48 ore di scalo a Los Angeles dell’avvocato Vittorio Ciocchetti in trasferta per una causa di divorzio in Messico, Smog segue il peregrinare del protagonista per i quartieri della  città americana accompagnato da Mario, un italiano conosciuto in aeroporto che da anni si arrabatta sfruttando in America il mito italiano per i suoi modesti e discutibili affari. Introdotto nella comunità locale di connazionali, Ciocchetti farà i conti con le contraddizioni e le storture del sogno americano, specchi di medesimi limiti e difetti del coevo boom economico tricolore.

Pur ribadendo costantemente a sé e agli altri di essere diverso (e superiore) per cultura, mentalità e formazione il protagonista manifesta in realtà un provincialismo e una superficialità che vanno a braccetto con un’innata furberia malandrina, finendo per rendersi infima incarnazione dell’intraprendenza arruffona in voga in quei anni.

Ma ciò che colpisce maggiormente lo spettatore è il rapporto che si crea tra personaggi e spazi urbani. L’architettura all’interno e attorno alla quale si svolgono le azioni sottolinea, con un’incisività pari alla lettura dello spazio urbano in Antonioni, la medesima alienazione interiore di chi abita quei luoghi asettici ed estranei all’armonico vivere dualistico uomo/ambiente naturale ancora fortemente presente nella dimensione cittadina solo di un decennio prima.

Le avveniristiche costruzioni del Theme Building dello Studio Pereira & Luckman per l’aeroporto internazionale di Los Angeles, la Stahl House di Pierre Koenig e la Triponent House di Bernard Judge danno al paesaggio americano una dimensione lunare che sottolinea ulteriormente lo spaesamento di chi ci vive o li attraversa, in particolare Ciocchetti, estraneo in terra straniera, emarginato tra gli emarginati.

L’avvocato vive sulla propria pelle il medesimo disagio dei suoi conterranei, un malessere celato da un ostentato e forzato benessere moderno che contrasta con la malinconica nostalgia del protagonista per l’antica villa di proprietà della famiglia della fidanzata in Italia. Ognuno vive la propria porzione di sogno, l’illusione di un’esistenza migliore perché più ricca, senza accorgersi però che la vita passa loro davanti agli occhi, fuori dalla bolla trasparente in cui si sono richiusi (la vetrata a piombo sulla città della casa di Gabriella, la compagna di Mario, così come la cupola di alluminio e resina che copre l’abitazione in cui il protagonista è ospitato a fine film).

Un vuoto interiore, sottolineato dalle rarefatte note della tromba di Chet Baker e obnubilato dal falso mito dello sviluppo senza progresso di cui parlava Pasolini, oggi più che mai attuale. Fumo, o meglio dire smog per gli occhi.