A cavallo fra La sposa turca e Il matrimonio di Lorna, fra Belgio e Romania, fra Europa povera e benestante, Sola al mio matrimonio della regista rumena Marta Bergman si inserisce per temi e stile nel solco cinematografico di Fatih Akin e dei fratelli Dardenne,  aggiornandolo al femminile.

Pamela è una ragazza madre, vive in un villaggio nei dintorni di Bucarest in uno squallido monolocale che condivide con la nonna, prepotente e offensiva, e con Bébé, la figlioletta di appena due anni. Oppressa da stenti, fatica fisica, neve e solitudine, desidera affrancarsi, e velocemente, da una condizione che la penalizza sotto ogni aspetto. Attraverso un'agenzia di incontri on line fa la conoscenza di Bruno, che vive in Belgio e cerca moglie, e nottetempo abbandona figlia, nonna e villaggio per trasferirsi da lui ed aprirsi ad una nuova vita. Se la sua scelta è discutibile, egoista e fatta fra indecisi sensi di colpa verso la figlia, quella di Bruno, impacciato e represso, di accogliere una sconosciuta da inglobare in casa propria come un pezzo d'arredamento è infantile oltre che disperata. Ed è proprio nel rapporto fra i due che il film non trova la forza necessaria per farsi davvero coinvolgente.

Laddove La sposa turca disvelava allo spettatore e ai suoi protagonisti la nascita di un amore paradossalmente non consumato fra coniugi uniti da una mera convenienza formale, vitale lei e disperato lui proprio come Pamela e Bruno, e laddove Il matrimonio di Lorna sorprendeva per la capacità di empatia di una donna verso un fragilissimo tossicodipendente in un mondo disumanizzato, nessun aspetto di altrettanto rilievo ed interesse emerge in modo netto in Sola al mio matrimonio. Peccato, perché il ritratto femminile di Pamela offre comunque sussulti non banali: il desiderio di un uomo che le porti rispetto, la disponibilità ad un salto nel buio alla ricerca di qualcosa di meglio, la necessità di sentirsi desiderabile, la malinconia e la colpa che affiorano in fugaci sequenze oniriche.

Tuttavia, si avverte la mancanza di una svolta di sceneggiatura davvero capace di approfondire la materia e che riguardi lei, il cui progetto di riscatto non può dirsi sabotato né dai rimorsi personali né dalla piattezza di Bruno, o quest'ultimo, fermo nella sua immaturità. Paradossalmente, tre uomini, Fatih Akin e Luc e Jean-Pierre Dardenne, superano una regista e sceneggiatrice donna, che pure mostra di aver fatto del tutto sua la loro lezione cinematografica, proprio in un ritratto femminile e sentimentale che vorremmo più complesso, in un contesto di emarginazione e difficoltà tipicamente europeo che ci è da tempo familiare.

La macchina da presa della Bergman, al suo primo lungometraggio, tallona la Pamela di Alena Serban, la sua vivida interprete, come se fossimo in Rosetta dei Dardenne, trovando momenti ispirati soprattutto nelle sequenze iniziali, ambientate in Romania, e ce la consegna in una scelta finale simile sì a quella della Sibel di La sposa turca, ma non altrettanto in grado di fissarsi nella nostra memoria e parlarci. Aspettiamo la Bergman al secondo film, convinti che abbia le carte in regola per avvicinarsi ai suoi modelli.