I diversi ruoli interpretati da Lucia Bosè nel corso della sua carriera, parallelamente alle vicende private con Walter Chiari e Dominguín esibite dai settimanali scandalistici, costituiscono l’appassionante tentativo dell’attrice di affermare il controllo sulla sua stessa immagine divistica. Dagli esordi neorealisti con De Santis ai film più intimisti di Antonioni ed Emmer, dalla matrona romana suicida per il Satyricon (1969) di Fellini ai ruoli più dichiaratamente politici con Bolognini, Maselli e i Taviani per finire con Rosi e Ozpetek, Lucia Bosè ha interpretato donne che trasgrediscono i ruoli di genere e di classe prescritti dalle convenzioni sociali e che vogliono essere in controllo della loro stessa narrazione.

Epitome di questa narrazione meta-filmica è il personaggio dell’attrice Clara Manni in La signora senza camelie (1953) di Michelangelo Antonioni. Come Lucia, Clara è una semplice commessa catapultata dal successo cinematografico sulla scena divistica nazionale, dove, tuttavia, fatica a mantenere la sua indipendenza e il controllo sui ruoli che, in un mondo di uomini, le vengono imposti. Tutto il film di Antonioni sembra svolgersi su un immenso set cinematografico, problematizzando i confini tra film girato e vita dell’attrice (Clara/Lucia). Sedotta proprio come la protagonista del film che interpreta inizialmente e che il marito-produttore Franchi le impedisce di continuare, Clara si ribella al ruolo di moglie che Franchi le ha imposto come il fallimentare progetto cinematografico su Giovanna d’Arco. “Ci siamo sposati come in un film”, riflette significativamente Clara una volta che il suo matrimonio è terminato.

Vincitrice di Miss Italia nel 1947, Lucia capisce presto che controllare la propria carriera non è facile per una donna: la famiglia le impedisce infatti di interpretare Riso Amaro (1949), ma De Santis la richiama per Non c’è pace tra gli ulivi (1950) e Roma: ore 11 (1952), in entrambi al fianco di Raf Vallone. Pastorella ciociara che rifiuta un matrimonio combinato nel primo e aspirante dattilografa in cerca della propria indipendenza dalla famiglia agiata nel secondo, Bosè interpreta due donne diversissime eppure legate dal comune rifiuto delle aspettative sociali e dall’amore per un uomo diverso da quello scelto per lei. Anche in Cronaca di un amore (1950), primo film con Antonioni, il personaggio di Paola, sposata al ricco Enrico ma innamorata di Guido con cui progetta di uccidere il marito in uno dei piani sequenza più avvolgenti di sempre, rifiuta il ruolo di donna indifesa e passiva. Paola è una donna che vuole affermare la liceità del suo desiderio in un mondo maschile che la bolla come criminale semplicemente perché non riesce a manipolarla e sottometterla fino in fondo.

Nel 1955 l’esordiente Maselli le regala un altro ruolo complesso ne Gli sbandati: quello di Lucia, una donna del popolo che riesce, anche se temporaneamente, a scuotere dal torpore borghese e collaborazionista l’agiato Andrea. Il matrimonio con il torero Dominguín e la burrascosa convivenza impongono uno stop alla sua carriera cinematografica che riprende, tuttavia, alla fine degli anni 60 all’interno di film politici sia di matrice più metaforica e distopica come Sotto il segno dello scorpione (1969) di Paolo e Vittorio Taviani sia caratterizzati da un maggiore realismo sociale come Metello (1970) di Bolognini. Cronaca di una morte annunciata (1985) di Rosi e Harem Suare (1999) di Ozpetek confermano il ruolo della diva come proprietaria della narrazione, anche in ruoli minori. Il suo atto di sbarrare la porta al figlio Santiago al termine della scena più suggestiva del film di Rosi segna il destino di tutti i personaggi, mentre il dialogo alla stazione ferroviaria con Valeria Golino nel film di Ozpetek ne afferma l’autorità narrativa, stabilendo anche un confronto generazionale sull’immagine divistica nel cinema italiano.