Bionda, snella, sorridente: queste le caratteristiche dell’innovativa bambola Mattel che ha portato generazioni di bambine a sbarazzarsi del sogno materno simboleggiato dal bambolotto e ad abbracciare un nuovo modello di gioco, rappresentante la donna moderna, indipendente, capace di diventare chiunque voglia essere. Rivoluzione posticcia, come lo erano le intenzioni dell’azienda, la quale non aveva fatto altro che rubare il prototipo della bambola tedesca Bild Lilli, creata per assecondare le fantasie maschili.

Il carattere illusorio della vicenda è messo immediatamente in chiaro da Greta Gerwig nel suo film attraverso la voce fuori campo, che ci conduce all’interno dell’utopica ginecocrazia di Barbieland, dove le Barbie occupano tutte le cariche istituzionali e svolgono le mansioni lavorative più prestigiose. Nell’atmosfera si respira tutta la critica della regista verso un modello di femminismo radicale, che viene satiricamente rappresentato a metà tra un regime dittatoriale, con la costruzione di un giro di saluti iperbolico verso Barbie che ricorda vagamente quello ideato da Taika Waititi in Jojo Rabbit e quella fase primordiale dell’infanzia in cui il bambino si sente un unicum con l’ambiente circostante.

Il modello proposto risulta tossico perché incarna quel livello di femminismo che prevede l’eclissi totale della figura maschile, di quei Ken che vivono solo ed esclusivamente in funzione dello sguardo di Barbie e che sperano di essere notati mentre lei trascorre l’esistenza in feste mondane per sole donne. Il quotidiano che si vive nella Dreamhouse è ripetitivo nella sua perfezione e, se nelle intenzioni sembra voler trasmettere valori rivoluzionari, nei meccanismi restituisce la stessa passività e impossibilità d’azione della vita domestica esperibile dalle donne comuni. Ed è proprio quando Barbie stereotipo spezza questa monotonia, domandandosi della morte, che il sistema entra in crisi e sopravviene l’avventura verso il mondo reale.

Seguita involontariamente nel suo viaggio da Ken, Barbie esperisce cosa significa essere donna nella realtà: il disagio suscitato dal catcalling, al contempo vettore d’empowerment maschile, e la totale assenza di complicità, empatia e sorellanza femminile, documentata dal personaggio di Sasha. La ragazzina si erge come paladina del politically correct, nel suo linguaggio ricco di litoti per scansare le offese verso le minoranze sociali, ma aspramente critico nei confronti di Barbie stereotipo, accusandola di nazismo e di essere causa del senso d’inadeguatezza provato dalle adolescenti. Il film fa dei dialoghi pungenti e satirici la sua punta di diamante a scapito dell’azione, risultando a tratti didascalico nella costruzione dei sistemi di valore considerati.

D’altra parte, innegabilmente brillanti i momenti dedicati a Ken in veste di cowboy alla scoperta del patriarcato, in una sequela di immagini rivelatorie che pongono il cavallo come simbolo prediletto dell’apparato. La narrazione del fenomeno culmina con la scoperta da parte di Barbie dei vertici Mattel occupati da soli uomini, sostenitori di un politicamente corretto di facciata e desiderosi di ristabilire l’ordine minacciato dalla bambola al di fuori della sua scatola. Nelle loro mise nere, tutte uguali, gli uomini dimostrano di possedere quello spirito d’alleanza che manca alle donne e che permette ai Ken di impossessarsi della Barbieland in pochissimo tempo, piegando le altre Barbie a servirli in abiti sexy.

Ed è qui che il film giunge al nocciolo del problema e individua le qualità cardine del patriarcato: ego e fratellanza, paradossalmente gli unici strumenti che le donne possono utilizzare per metterlo in crisi. Così, in un prima fase di costruzione dello stereotipo, le Barbie assecondano i Ken aiutate da un Allan metafora dell’uomo alleato del femminismo, in un apprezzabilissimo excursus dei luoghi comuni cinematografici legati al male gaze e al mansplaining, nel quale le bambole prendono consapevolezza del loro corpo e lo usano come strumento di soggiogazione maschile. Successivamente, si passa al momento di decostruzione, in cui le Barbie spezzano la complicità trai Ken attraverso giochi di seduzione femminile e gelosia maschile.

Il patriarcato sconfitto da sé stesso, culminante in un delirio performativo di stampo reaganiano tra Ken, al quale segue finalmente la definizione di quel femminismo sano ed etico ambito dalla regista. La battaglia dei sessi non è la chiave per una società in equilibrio, ma lo è Barbie che scopre di avere un’identità, come anche Ken, e che entrambi posseggono un libero arbitrio nel momento in cui smettono di immaginarsi creature e divengono demiurghi delle proprie esistenze, costruendo nell’umana ordinaria imperfezione una realtà in cui ognuno forgia la sua storia e nessuno può controllare i propri figli, nemmeno i sistemi che tentano di definirli.