Quando erano trapelate le prime fotografie dal set, quelle che ritraevano Margot Robbie e Ryan Gosling in tenuta da pattinaggio anni Ottanta, ammetto di aver provato paura. Reduce dai tempi d’oro di Barbie e il lago dei cigni, non sapevo cosa aspettarmi da dei Barbie e Ken a grandezza naturale sceneggiati da Noah Baumbach – avvezzo al racconto dell’erotica noia borghese – e Greta Gerwing… questa Barbie è (anche) una regista!
Ma il lungometraggio in rosa ha cominciato a rivelare il suo potenziale già con i primissimi teaser e trailer: dalla citazione a 2001: Odissea nello spazio al pay-off “She’s everythig, he’s just Ken”; Barbie ha perso l’aura di sogno per rivelare il suo animo satirico. Il film della Gerwig, come affermato dalla stessa regista, è un film femminista – nel senso più intersezionale e contemporaneo del termine. Barbie denuncia le dinamiche patriarcali del Mondo Reale, ricordando che il “se puoi sognarlo, puoi farlo” non è un concetto valido per donne e minoranze di genere… lo fa tingendo tutto di rosa e insegnandoci che si può amare la bambola più iconica del mondo anche indossando le Birkenstock.
Sono tre i punti di forza di questo film, che si presenta al pubblico già come un cult: la sceneggiatura a dir poco brillante, una bellissima e coinvolgente Margot Robbie e un Ryan Gosling da disco biondo platino. I dialoghi di Gerwig e Baumbach sono tanto dissacranti quanto ingenui (in un’accezione positiva del termine), enfatizzando la complessità emotiva dei protagonisti – soprattutto Ken. Il bambolotto più sottovalutato della storia, alla stregua di un accessorio, prova dei sentimenti, vuole sentirsi appagato e amato, e, soprattutto, sa cantare e ballare.
Lo stacchetto musicale a fine film (che rimarrà per sempre impresso nella mia memoria) ci insegna che Ken vuole ciò che tutti – uomini, donne, Barbie e cavalli – desiderano: un generico senso di soddisfazione nonostante la caducità dell’Universo. Margot Robbie, chiaramente, è una scelta di casting semplicemente perfetta: sia per gli standard di bellezza invidiabili e inarrivabili (critica da sempre mossa alla Mattel), che per la performance recitativa giocosa.
Al di là del sottotesto femminista, Barbie è innanzitutto un’ottima commedia ricca tanto di citazioni pseudo-cinefile quanto di azione. È anche un racconto di formazione, dove una madre cerca di recuperare il rapporto con la figlia mentre Barbie lascia la propria “famiglia” per trovare il proprio ruolo nel Mondo Reale. Infine, Barbie, a pochissimi giorni dalla propria uscita, si afferma già come un cult movie: un fenomeno culturale che ha portato in sala spettatori di ogni età e di ogni genere, tutti vestiti in rosa come se fosse stato richiesto un effettivo dress code.
Si tratta di un’opera che fa ridere tutti, riflettere alcuni e soprattutto sbeffeggia quelli che in questo branded movie riconoscono solo una mossa per guadagnare sulla lotta per i diritti e non quello che Barbie di fatto è: un lavoro che ci insegna a non prenderci troppo sul serio – perfino quando sui corpi delle donne e delle minoranze di genere si fanno delle guerre, quando non si può girare serenamente per strada, quando non viene riconosciuto il valore del proprio lavoro e quando già solo esistere si trasforma in un atto politico.