La forza di un messaggio innestato all’interno di un racconto è strettamente relazionata all’efficacia della forma narrativa che lo sostiene. Tanto più il contenuto viene portato all’emersione in maniera spontanea e naturale, maggiore è l’effetto sortito sul fruitore, il quale, soggetto ad un solido legame empatico, si rivela anche maggiormente attento e persuadibile. In questo senso le suggestioni intrinseche ai generi dell’orrore sono state declinate, sin dai loro albori, a mezzi per l’indagine e la comprensione di disagi politici e sociali insiti in contesti differenti. Dall’espressionismo tedesco degli anni Venti, nel quale si intravedevano i prodromi dei timori poi deflagrati con il nazismo, al filone post-apocalittico che intercettò la psicosi del nucleare negli Stati Uniti degli anni Cinquanta, sino all’inaudita ed incompresa violenza del cinema argentiano emerso dallo sfaldamento dell’ideale sessantottino, sulla soglia degli anni di piombo.

L’horror si è da sempre saputo nutrire dei terrori dilaganti nell’animo umano, alimentando la propria carica creativa, immaginifica e dirompente fino ad assumere le sembianze, come sostiene Stephen King, di “un valido barometro di ciò che turba il sonno di un intero paese”. Una lezione che l’ex comico Jordan Peele pare avere pienamente assimilato sin dal suo clamoroso esordio registico con il thriller Scappa-Get Out, in cui, sfruttando i basilari meccanismi di innesco della tensione, delineava una delle più incisive analisi sulla discriminazione etnica partorite dal cinema americano contemporaneo.

Incassato il meritato successo e galvanizzato dalla consapevolezza delle proprie capacità, Peele accetta la sfida di farsi portavoce dei drammi che affliggono le minoranze e rilancia l’accusa partorendo un’opera oltremodo ambiziosa, certamente imperfetta, ma ancora una volta estremamente puntuale nel saper calibrare il rapporto tra tema e forma di esposizione. Dopo avere descritto i disagi della comunità afroamericana, il regista amplia il proprio raggio di denuncia, realizzando un’allegoria riguardante il dramma degli oppressi in senso universale, senza restrizioni di provenienza e cultura. L’attenzione non viene attirata tanto sul timore nei confronti del diverso, ma sulla difficoltà a riconoscere una parte differente di noi stessi in quanto appartenenti alla razza umana; l’angoscia dell’ammettere gli esiti che le nostre azioni producono sull’altro e la paura estrema di affrontane le inevitabili conseguenze.  Nell’esprimere questo concetto Noi parte da un’idea smaccatamente letterale, ma ancora una volta sorprendente per la disinvoltura attraverso cui riesce a personificare un concetto aleatorio, incanalando il fervore del discorso in uno spunto drammaturgicamente brillante e pertinente.

La storia di una famiglia borghese che si trova ad essere perseguitata dalle proprie controparti primordiali, oscure e dimenticate è la semplice e calzante concretizzazione del tema esposto, nonché l’ennesima prova della capacità del cosiddetto “cinema di genere” di farsi abile mediatore tra un argomento complesso ed un linguaggio diretto e abbordabile.
Confermando la maturità registica che ha contraddistinto il suo film precedente, Peele realizza un altro prodotto visivamente raffinato ed emotivamente perturbante, in cui l’ironia giunge improvvisamente a stemperare un senso di angoscia costantemente in crescita.
Sfruttando le interpretazioni di un cast particolarmente convincente (su tutti una sinistra Lupita Nyong’o), il regista riesce a delineare l’inquietante rapporto che lega i protagonisti ai loro grotteschi alter ego, celando dietro ai lineamenti degli attori tanto il panico delle gracili vittime quanto la folle sete di vendetta degli ambigui carnefici.

Una corsa stratificata, entusiasmante, ma non esente da grossolani intoppi. Negli anni in cui l’horror d’oltreoceano attraversa un’incredibile momento di prosperità, contrapponendo blockbuster dagli straripanti successi commerciali a folgoranti ed ardite opere indipendenti, è singolare come Jordan Peele appaia costretto in un limbo collocato da questi due poli. Noi è una creatura difficilmente catalogabile, pervasa da una freschezza di messa in scena che fatica a trovare un atteggiamento parimenti temerario e compatto sul piano della logica narrativa.
In un gioco che punta a disorientare, facendo perdere le coordinate dell’azione per poi tirare didascalicamente le fila in conclusione, l’esito può essere più frustrante che appagante; grande limite di un’operazione dal potenziale immenso e dal fascino innegabile, che conferma le qualità del suo artefice nei panni di abile narratore della contemporaneità.