Céline Sciamma propone una lettura controcorrente e anticonformista non solo dello sguardo femminile, ma anche dell’infanzia nel cinema. In Italia, si sa, esiste da sempre un pregiudizio verso i bambini nel cinema, che ricorda spesso quanto sia difficile lavorare ad un film con bambini ed animali (mettendoli sullo stesso piano). È famoso l’aneddoto (citato anche da Scola in C’eravamo tanto amati, nell’episodio che vede Stefano Satta Flores protagonista di una puntata di Lascia o raddoppia con Mike Bongiorno) del trucco utilizzato da Vittorio De Sica durante le riprese di Ladri di biciclette per far piangere il piccolo protagonista durante la scena dell'arresto del padre.
Tutt’altra direzione è quella presa da Céline Sciamma che durante l’incontro con il pubblico al cinema Galliera di Bologna ha dichiarato: “Questa è una cosa bruttissima, dice molto di come considerano i bambini non solo in Italia, ma anche nel mio Paese, dove un cane in un ristorante è più benvenuto di un bambino. Se c’è un animale sul set c’è un coach di animali, c’è un intermediario, coi bambini questo non succede. Perché con i bambini parliamo come se fossero adulti, parliamo di cinema, dell’idea del film, c’è una visione molto romantica della relazione tra gli attori bambini e i registi, perché alla fine non è questione di psicologia, o di emozioni, ma è questione di creare insieme un’ idea di cinema e di lavorarci giorno per giorno, sul set”.
Potremmo quasi parlare di una rivoluzione silenziosa diffusa per tutta l’opera della regista francese, capace di restituire al cinema una nuova “possibilità narrativa” e un “diverso immaginario” attraverso la costruzione di sceneggiature perfette, la scelta di una regia asciutta e magicamente realista, un uso quasi primordiale della macchina da presa, grazie al quale lo sguardo della regista risulta essere sempre al posto giusto al momento giusto, anticipando la parola e la narrazione, cancellando la necessità di ricorrere ad effetti speciali, e semplicemente costruendo, scena dopo scena, anche grazie a un montaggio di scrittura assai rigoroso, un viaggio nel quale immaginazione e memoria si trasformano in una macchina del tempo.
La macchina da presa di Céline Sciamma dice tutto, e lo fa, in questo come in altri suoi film (pensiamo in particolare a Tomboy) nell’arco di una durata temporale singolarmente breve (72 minuti), se rapportati alla ipertrofia comunicativa dilagante nei media del secondo millennio. È bastata questa brevità per sentir rivolgere a Petite maman l’appellativo di “film piccolo”, con l'intenzione tenera di un vezzeggiativo, che però mai fu più erroneamente attribuito ad un film.
Infatti Petite Maman, come tutta l’opera filmica della regista quarantetreenne francese, è altresì un film grandissimo, capace di incastonarsi alla perfezione nella visione ideologicamente attiva del cinema che l’autrice porta avanti dalla sua opera prima, un cinema di rivendicazione identitaria, di sostegno alla lotta (privata e politica) di accettazione del proprio sé, spesso in contrasto con la normatività delle convenzioni sociali, una filmografia capace di affrontare, fruttuosamente, il tema della divergenza tra lo sguardo degli altri su di sé e la propria consapevolezza identitaria. Un cinema del rispecchiamento, che ricorda alla popolazione femminile e femminista (ma non solo), quanto ancora sia necessario tanto lavoro sugli specchi (gli specchi materiali e quelli sociali) per donare alle donne un reale status di autocoscienza.
Ma come riesce Céline Sciamma a mettere in opera questo stravolgimento delle linee narrative tradizionali e patriarcali? In parte la risposta è suggerita dal bellissimo libro “Architetture del desiderio - Il cinema di Céline Sciamma” curato da F. Fabiani e C. Zanini (ed. Asterisco 2021) dove si dice che “Trattare le personagge in modo paritetico, evitando le gerarchie distruttive che incastrano le trame in narrazioni tossiche, porta sullo schermo relazioni d’amore, amicali, filiali non convenzionali”.
I continui i rimandi al female gaze, teorizzato da Joey Soloway, sono arricchiti dall’intenzione di non creare un semplice ribaltamento dei ruoli “ponendo il maschile in posizione passiva e subordinata”, ma imparare ad “orientare la mdp sui sentimenti”, per una restituzione del vero sguardo femminile. È per questo che la decostruzione della narrazione dominante fa di Sciamma un'eroina e dello sguardo che teorizza con i suoi film, uno sguardo dissidente. Céline è la regista che sta seminando nel cinema un humus fertile per coordinate nuove “di interazione e di desiderio”. E quando parliamo di interazione è su più piani che ci muoviamo, procedendo per coppie dicotomiche o binarie, quelle della interazione tra maschile e femminile, come tra pubblico e privato, individuo/coppia, mondo adulto/mondo bambino. Fino a Petite maman, il grande assente nei film di Sciamma, è proprio una figura maschile delineata e forte, determinante.
Abbiamo chiesto a Sciamma se c’è bisogno di mettere al margine gli uomini per recuperare uno sguardo femminile. Se sia una cosa voluta, un effetto necessario per recuperare uno sguardo integrale delle donne sulle donne, senza interferenze. E se il senso di solitudine delle soggette, con cui spesso si chiudono i suoi film, sia da interpretare più come una conquista (al modo di Virginia Woolf nella Stanza tutta per sé) o piuttosto una sconfitta?
“Le due riflessioni sono collegate, ha risposto l’autrice, la solitudine dei personaggi impara a convivere con la loro individualità, perché sono fuori dalla pressione della società della performance. Anche se in questo film volevo che le stesse dinamiche fossero più democratiche, la famiglia, il padre volevo che il personaggio maschile fosse più partecipe della rivoluzione in atto, il maschio che nei film precedenti era più assente (assenza utile a mostrare l'oppressione delle donne e la loro oggettificazione rispetto allo sguardo maschile), qui è più delineato, volevo far sentire il piacere della presenza del personaggio maschile.”
Il fatto che la mdp sia sempre all’altezza degli occhi della bimba è una rivendicazione dei diritti dei bambini?
“Quando nel cinema si parla di sguardo dei bambini si dice sempre che la camera è al loro livello, sicuramente è così, ma lo sguardo dei bambini non è una questione di altezza per me, bensì di profondità. L’infanzia per me non è solo un momento della vita, come un tempo finito, anche questo film vuole dimostrare la fluidità dei nostri corpi, noi siamo la stessa persona che cresce sempre e l'infanzia non è passata. Io ho scelto personaggi bambini, perché penso che siano i migliori per fare i film che voglio fare, perché lo sguardo e la voglia di sapere, di comprendere, di amare è maggiore. Questo è il motivo per cui Miyazaki è sicuramente uno dei miei riferimenti per questo film, perché nessuno dice che Miyazaki fa film per bambini, Miyazaki fa semplicemente cinema.”
C'è stato in Petite Maman uno spostamento nell’analizzare la figura della donna, che chiaramente fa ancora molte rinunce ed è ancora oppressa dal suo ruolo nella società, ma è la donna in crisi o sono i ruoli che da sempre le vengono attribuiti ad essere cambiati nella società?
“Tutt’e due insieme. La prima cosa che ho voluto sulla mia sceneggiatura è che non si sviluppasse attorno ad un conflitto, quindi ho provato ad evitare la tensione tra i personaggi della madre e della figlia, tra tutti i personaggi, e questa è una decisione politica, perché il conflitto nel cinema è una condizione drammaturgica che si impara a scuola, ma in realtà possiamo decidere di scrivere un film senza un conflitto, come ho fatto per esempio ne La mia vita di zucchina. È un movimento di scrittura che ho iniziato proprio in quel film che ho scritto per i bambini, perché lì vediamo i personaggi in relazione paritaria e non c’è la madre adulta. Tornare al realismo magico è come tornare ad una infanzia del cinema grazie al discorso sull’infanzia stessa.”
Nel realismo magico di Sciamma l'elemento soprannaturale emerge inatteso tra le pieghe della vita di tutti i giorni e viene subito introiettato come reale. Del resto, a Sciamma non servono gli effetti speciali per stupirci perché come ha detto lei stessa “Io come sceneggiatrice gioco sempre di più su questa scultura di tempo che sono i film, essendo più cosciente del fatto che ogni film è un viaggio nel tempo e immortala sempre un episodio, un momento di trasformazione particolare, ed è questo il motivo per cui non c’era bisogno di usare una macchina del tempo in Petite Maman, perché è il cinema stesso a farci viaggiare nel nostro tempo”. E come spettatori sappiamo tutti che la fine della narrazione non coincide necessariamente con la fine della storia.