In questo Occidente così prevedibile e spietato, dove per ogni fatto, terremoto, naufragio o guerra che sia, è sempre pronta una reazione preconfezionata da condividere, l’appello più familiare e rigorosamente momentaneo rimane quello contro l’indifferenza, inteso come impegno a empatizzare senza condizioni, ma anche senza conseguenze.

È impossibile – recita il mantra dell’attualità nel primo mondo – non identificarsi, almeno per un pomeriggio. Ma a volte (forse la retorica emergenziale del presente lo trascura intenzionalmente) questo esercizio del vedere e sapere e sentire a tutti i costi funziona nostro malgrado, perché si finisce per immedesimarsi sul serio proprio quando si crede di non volere o riuscire più a farlo.

Come accade guardando The Whale, ovvero assistendo a cinque giornate nella vita da recluso di Charlie, un uomo di oltre 250 chili che tiene corsi di scrittura in rete e, consapevole di dover presto morire, tenta di recuperare un legame con Ellie, la figlia adolescente abbandonata nove anni prima per amore del giovane Alan (che nel frattempo è morto). A partire dal suo fisico, tutto di Charlie, e molto del film, dovrebbe sulla carta respingere: l’andamento anchilosato dei dialoghi, i rapporti deformati dalle dipendenze affettive (l’amica e infermiera Liz) e dal rancore (l’ex moglie Mary), la simmetria esasperata tra l’obesità punitiva di Charlie e le ragioni della morte del suo compagno, le intermittenti ansie religiose del missionario Thomas che vorrebbe convertire il professore.

E invece, certo soprattutto grazie all’interpretazione di Brendan Fraser, The Whale costringe a partecipare con lo sguardo e col resto degli organi al dramma di Charlie, ammettendone un’implicita grazia, e quindi ad approvare la sua scelta di non essere salvato.

Sulla base di questo meccanismo di empatia perversa, e intorno al corpo inaggirabile del suo protagonista, è girato l’ottavo lungometraggio di Darren Aronofsky, che non è nuovo a formule radicali ed epidermiche di accanimento scenico, dai parallelismi terminali di Requiem for a Dream al decadimento anti-eroico di The Wrestler, dal sacrificio isterico de Il cigno nero al cannibalismo polanskiano di Madre!.

All’interno di una filmografia segnata da idee intriganti quasi sempre realizzate solo con estremismi narrativi, e secondo uno stile sospettosamente adattabile a contesti sovradimensionati (vedi il filone archetipico di The Fountain e Noah), pare coerente l’aggiunta di un film che si vuole ingombrante e persino ricattatorio, e che a livello formale (il 4:3) e drammaturgico resta subordinato all’opera teatrale di Samuel D. Hunter da cui è tratto.

Eppure The Whale rivela una forza inattesa, perché dimostra di avere qualcosa di più e qualcosa di meno rispetto a quello cui il regista newyorchese ha abituato il pubblico, innanzitutto dei festival (il film è stato presentato a Venezia 79, dove ha vinto il Leoncino d’oro, e a Toronto). Quel che ha di meno è la riduzione dell’elemento visionario che spesso risulta ingombrante nelle altre prove di Aronofsky, e qui invece compare nel finale in una declinazione giustamente enigmatica. Quel che ha di più è il coraggio di ammettere, sin dalla limitatezza dei movimenti di macchina e dalla fotografia uggiosa, la volontà di essere onesto a costo di essere sgradevole, come immaturo ma limpido è il tema su Moby Dick letto e recitato lungo tutto il corso del film.

Anche il romanzo di Melville (il cui sottotitolo, raramente lo si ricorda, è semplicemente The Whale) rientra nel sistema di perversa empatia che coinvolge gli spettatori e i personaggi. Se tra loro, compreso il fattorino delle pizze e su tutti Ellie (che fa del bene quanto più vorrebbe ferire gli altri), nessuno può fare a meno di tornare ogni giorno nell’appartamento senza luce di Charlie, è perché la sua figura enorme e biancastra non smette di attrarli, come è per l’equipaggio del Pequod di fronte alla balena, quando normalmente dovrebbero esserne inquietati.

Il valore costante di The Whale sta in quanto, una volta appurato che a Charlie resta pochissimo da vivere, si continua a cercare dentro quella stanza nonostante lo squallore disturbante e i problemi d’impostazione del film. Perché nello sguardo acquoso di Charlie si trova la spiegazione di qualcosa che riguarda chiunque, il senso di una disperazione giusta, legittima, infinita.