I nostri occhi sono, ora più come mai, subissati di narrazioni e racconti su Diana Spencer; serie tv, fiction, film, senza considerare la quantità enorme di documentari che sono stati prodotti e fagocitati dalle reti televisive, e dagli occhi onnivori delle telecamere e dei tabloid. C’è qualcosa di sempiterno, misterioso e bulimico nella rappresentazione di Lady Diana, come un mostro sacro, il cinema stesso, che fagocita se stesso nel tentativo di voler dare nuova carne, spessore e luce a un personaggio che ha colpito e determinato l’immaginario culturale, e meta-culturale, della fine del XX secolo.
E ogni volta è un cinema diverso, cambia l’angolazione, la prospettiva, il raggio d’azione, la cronologia, è come fissare un quadro e scegliere di posare gli occhi ogni volta su un dettaglio differente. Forse senza mai raggiungere per davvero, almeno al cinema, vette di complessità e ricchezza che possano giustificare le ore di girato e di storie dedicate alle Principessa del Galles.
Ma ciò che resta, alla rappresentazione microscopica e ossessiva di una donna controcorrente, anarchica, rivoluzionaria a suo modo, è l’infingimento autoriale, è il discernimento tra il gossip, il chiacchiericcio promiscuo e la creazione di una nuova forma narrativa, che parte da una favola, tragica, e diventa una commedia nera, quasi un gotico disatteso.
Questo è Spencer di Pablo Larraín, interpretato da una bravissima Kristen Stewart - sempre fin troppo sottovalutata - un film di fantasmi che abitano luoghi e persone; come Anna Bolena, che appare negli incubi ad occhi aperti di Diana Spencer, come uno dei visitatori spettrali dickensiani - che aiutano Ebenezer Scrooge a intraprendere la sua redenzione - per suggerirle di scappare per salvare almeno la sua, di testa. Anna Bolena è Diana Spencer, le due sono legate allo stesso cappio: un matrimonio infelice, una tradizione oppressiva e annichilente, e l’impossibilità di potersi dileguare, perché l’unica legge che conta è la legge del palazzo, è la corona, è la sovranità disumana e insulare che il popolo vede e anela nei reali.
Spencer, svolgendosi nel Natale del 1991, durante i tre giorni che Diana ha trascorso con la famiglia reale nella dimora di Sandringham, fotografa non solo il rapporto ormai tramontato e gelido con Carlo, ma soprattutto il suo stato mentale, la sua vulnerabilità, la disarmonica opposizione tra l’esterno - il palazzo reale, così perfetto, geometrico, quasi inerte - e l’interiorità di Diana, tortuosa, inadeguata, tormentata.
Ed è su questo che Pablo Larraín punta il suo sguardo più sottile, realizzando un’indagine sul concetto di interno, su come Diana è entrata in rottura con la corona rifiutando di assumere la postura della principessa inerte, ma contrariamente rigettando quel contesto sociale tirannico, autodisciplinante e giudicante attraverso la sua bulimia, espressione (fisica) feroce del suo stato mentale.
Sandringham House diventa così non una dimora di festa ma feudo ostile, luogo di battaglia; la cucina diventa la trincea, il cibo è un proiettile, è una lama velenosa. Pablo Larraín descrive la geografia sentimentale di una donna, realizzando un sequel spirituale dopo il suo Jackie, e dopo l’esplorazione dei costumi reali americani; Larraín guarda non solo all’interiorità di Diana ma al conflitto, all’impatto evidente che il suo corpo esercita contro i reali, e al senso di profonda estraneità che compone la sua presenza. Spencer è un’operazione di rielaborazione del tempo (ir)reale, e di una vita regale che lo ferma, lo cristallizza in un’unico passato-presente, provocando l’illusione mortifera che il tempo non possa tornare ad esistere.
Nascere e vivere serrati in un loop temporale è la riscrittura visiva e deformante di Pablo Larraín della vita di Diana Spencer, che non ha scelto di vivere nello spotlight dell’attenzione pubblica, né nella sua luce accecante, ma di fuggirne quanto possibile, tentando di riscrivere le regole con cui si sta al mondo.