È come se per scrivere criticamente di Spider-Man: No Way Home venga richiesto di abbandonarsi completamente al proprio “senso di ragno.” In poche parole: nel tentativo di schivare un’eccessiva emotività sale prepotente il bisogno di immergersi nel mondo delle sensazioni, ma col giusto distacco. Ed ecco che si comincia a disporre il terzo capitolo della saga di Jon Watts in un “multiverso” di prospettive: la fase quattro del Marvel Cinematic Universe, l’archetipo fumettistico, lo scenario produttivo e distributivo, le eredità del passato, le possibilità dei racconti a venire.
Giochiamo a carte scoperte: si può scegliere di parlare di No Way Home ricorrendo alla pratica dello spoiler con una certa disinvoltura. Ciò non avverrà in questo spazio. Del resto, è possibile lasciare intatto non tanto un senso di sorpresa, quanto di aspettativa. Anche perché se analizziamo tutti gli aspetti para-testuali della promozione, possiamo affermare che l’effetto-sorpresa non sia stato una priorità quanto il tentativo (studiatissimo) di alimentare il fermento. Basti pensare ai trailer, grazie ai quali la trama di No Way Home ci viene praticamente spiattellata. E a colpire non è più la prospettiva di un piano narrativo, ma l’attivazione di precisi recettori passionali in nome del je sais que tu sais.
Di fatto, Spider-Man: No Way Home recupera il filo del precedente (e riuscito) Far from Home, prendendone in prestito anche il tono da teen movie. Spider-Man è stato smascherato da Mysterio e la sua vita come Peter Parker sta andando a rotoli: i giornalisti lo assediano, notizie controverse sul suo conto avvelenano l'opinione pubblica e le porte dei college più ambiti sembrano precluse, a lui e ai suoi affetti più cari. Nel tentativo di far dimenticare al mondo la sua identità, un incantesimo del Doctor Strange squarcia la realtà esistente lasciando che New York venga invasa da villain provenienti da universi “altri.”
È l’incursione in pompa magna di figure appartenenti a due “vecchi” prodotti ragneschi della Sony: la trilogia di Sam Raimi e la saga di Marc Webb, poi brutalmente abortita. Willem Dafoe, Alfred Molina, Jamie Foxx — rispettivamente Goblin, Doc Ock ed Electro — sono pronti a spolverare i vecchi costumi per consegnare allo spettatore-testimone la responsabilità attiva rispetto al successo del film. Come a dire: “questo film non funziona senza la tua devozione.”
In questi ingranaggi meta-narrativi tutto si incastra come previsto tra un easter egg e una citazione-allusione: Tom Holland, Zendaya, Jacob Batalon giocano alla staffetta comica con Benedict Cumberbatch, Jon Favreau e Marisa Tomei, mentre le scene di azione — alcune spettacolari, altre decisamente meno incisive — si alternano a spiegoni occulto-scientifici, nel tentativo (un po’ goffo) di risultare accessibile a chi non è ancora del tutto fidelizzato nei confronti della cronistoria cinematografica e seriale del Marvel Cinematic Universe. Con buona pace del ritmo, sofferente per la prima metà.
Ed eccoci al punto cruciale. Spider-Man: No Way Home è un film importante perché riflette — non del tutto volontariamente — sullo stato dell’arte del cinecomic cosiddetto. Anche e soprattutto sul “luna park” Marvel, per prendere in prestito un acidulo commento di Scorsese. Da un lato, abbiamo i Marvel Studios e la Disney all’apice delle proprie ambizioni espansionistiche, dall’altro, limiti di regia sempre più rigidi, che nel tessere legami di continuity sembrano affossare guizzi e intuizioni estranei al meccanismo ben oliato. Proprio com’è successo a Eternals di Chloé Zhao, appesantito dal dilemma per eccellenza: cosa ci si deve aspettare da un film Marvel e cosa ci si può ancora aspettare?
Jon Watts ricalca tutti gli ammiccamenti intertestuali che sono ormai parte imprescindibile della fortunatissima formula. Si parla diffusamente di fan service e il termine è sicuramente calzante, soprattutto se condito con l’effetto-nostalgia dato dal recupero di personaggi (più e meno) iconici legati al passato cinematografico di Spider-Man. È il culmine dell’accordo con la nemica-amica Sony, e lo si smaschera nitidamente mentre fa presa sulla nostra ossessiva retromania, intesa come cannibalismo famelico del già vissuto (e chi ha visto il pur godibile Ghostbusters: Legacy può intuirne i risvolti emozionali).
Ma Spider-Man: No Way Home non è solo questo: è un film spartiacque per il protagonista che, oltre a farsi manifestamente carico di un’eredità, sa liberarsene. La parola d’ordine è “responsabilità”, quella grande, derivante da un grande potere. Quella che, diciamolo, è un po’ mancata nelle incursioni di questo Spider-Man, che per Tom Holland è diventato un autentico coming of age.
Ed è forse questo il vero “ritorno a casa”, laddove i panni di eroe iper-tecnologico si strappano, finalmente, in nome di una ritrovata artigianalità. Lì, dove l’ossessiva ricerca di un mentore termina con una rinnovata consapevolezza, più drammatica, sul personaggio ideato da Stan Lee e Steve Ditko. Quel farsi carico del peso del mondo, quella testardaggine che non dà tregua: il ritratto di un eroe pop coloratissimo che sa sanguinare e maschera con brio un dolore intimo e profondo. Il vero “supereroe con superproblemi”, solitario per vocazione, che tende agli altri e al contempo li allontana.
Il merito di Jon Watts è riuscire a tenere in piedi in modo credibile un progetto che rischiava di essere fagocitato dalla sua stessa epicità. L’ennesimo sguardo sul mastodontico universo Marvel, certo, ma anche l’uso tutto sommato calibrato di un cast formidabile. E poco importa che i cattivi sotto l’egida della Disney continuino a non essere poi così cattivi (c’è speranza per tutti, come da copione): il pretesto è quello di offrire a uno dei protagonisti del Marvel Cinematic Universe le origini che gli sono state negate. Con un volteggio più libero e personale sul futuro, nella speranza che questa preziosa opportunità venga colta.