Il ritorno in sala di Strade perdute permette un breve ricognizione su quello che uscì all'epoca, da parte di una critica al tempo stesso spiazzata e ammirata dallo sperimentalismo di Lynch.

 

La riflessione sul cinema messa in atto da Lynch in Strade perdute si manifesta fin dalla scelta delle due strutture narrative e stilistiche diverse che caratterizzano i due segmenti. Nella storia di Fred siamo nelle zone d’ombra del noir, con la macchina da presa che si muove sinuosa a sottolineare rumori (i telefoni che squillano nella casa vuota della coppia), evidenziare dubbi (quando si stringe sui primi piani di Fred e segue i suoi spostamenti nella casa lo lascia scomparire in una zona buia del quadro e poi torna a inquadrarlo quando riemerge dal buio), o che si alza a schiacciare i personaggi contro gli sfondi minimalisti dell’appartamento o sul vialetto d’accesso deserto. Nella storia di Pete, invece, siamo nei sobborghi luccicanti di un gangster film losangelino, tra le stazioni di servizio, i motel, le villette suburbane; la macchina da presa è meno insinuante e più diretta, non sfiora le emozioni, ma le dilata fino a esibire in un ralenti l’apparizione di Alice; la narrazione si apre paradossalmente all’episodio incidentale, semi-comico e ‘tarantiniano’ dell’aggressione armata all’autista che guida incauto sulle colline (o a quello della morte di Andy, che Lynch però maneggia con ironico tatto, trascurandone le possibilità spettacolari e ironiche). La luce e la consuetudine dei cliché dominano sul buio e le esitazioni del viaggio nell’inconscio. Se nel segmento di Fred non sappiamo esattamente cosa attenderci, in quello di Pete quasi tutto è prevedibile; quasi come se due idee di cinema (e di realtà) diverse si affrontassero e cercassero costantemente di amalgamarsi davanti ai nostri occhi. Fino a quando, naturalmente, riescono davvero a fondersi, nel segno del sogno (la capanna in fiamme), nel mondo a mezza strada del deserto, in un andirivieni frenetico dei personaggi che abbiamo incontrato. L’autostrada perduta finisce per essere quella ritrovata della coscienza degli spettatori e del cineasta.
Emanuela Martini, “Cineforum”, n. 375, giugno 1998



Diabolico Lynch. Quattro anni dopo la catastrofe di Twin Peaks – Fuoco cammina con me, il regista più visionario d'America torna con un film ancora più folle, ma stavolta fa centro. Strade perdute è quasi un capolavoro. Purché abbiate voglia di stare al gioco, lasciando a casa logica e raziocinio. Se proprio volete un appiglio verosimile, diciamo che è la storia di un assassino dalla personalità multipla raccontata da due punti di vista, ma è solo un trucchetto. L'essenziale è altrove. Nella maestria millimetrica della messinscena (gesti, luci, tempi, sguardi), nell'ambiguità totale, infernale, del non-racconto (ogni film di Lynch è una discesa all'Inferno), nelle improvvise vampate di humour che curiosamente non scalfiscono ma potenziano l'incubo.
Fabio Ferzetti, “Il Messaggero”, 15 giugno 1998



Strade perdute
 è un esempio estremo di quel cinema decostruito, destrutturato, che viola le regole romanzesche, i meccanismi causa-effetto, la logica razionale, tentando invece d'andare in cerca di mistero, di suscitare emozioni e ansia, di moltiplicare analogie ed enigmi. Lynch non è certo il solo in questa ricerca, che ricorda quella intrapresa tanti anni fa da Jean-Luc Godard: sono come lui Terry Gilliam, Tsai Ming-liang, altri. Le loro opere possono entusiasmare oppure risultare insopportabili: certo sono le uniche estranee al pensiero commerciale, le uniche a proporsi di creare un cine-linguaggio adeguato al proprio tempo, a voler rispecchiare il caos contemporaneo.
Lietta Tornabuoni, “L'Espresso”, 18 giugno 1998




Uno dei motivi del fascino del cinema di David Lynch è la sua capacità di creare mondi immaginari che superficialmente assomigliano alla realtà per poi condurre lo spettatore in narrazioni labirintiche e fuori dagli schemi. In Velluto blu e Twin Peaks (la serie), improbabili cittadine che sembrano uscite da un libro illustrato per bambini si aprono su mondi orribili dove si scatenano le forze del male. Al contrario, film come Eraserhead stabiliscono da subito una stranezza da incubo. È il caso di Strade perdute, che inizia nello spazio claustrofobico di una villa dagli interni spogli. Mentre il grande schermo crea un discreto senso di disagio isolando i personaggi nel vuoto dell'ambientazione, lo spettatore, privato di rassicuranti riferimenti spazio-temporali, è portato a condividere i sospetti di Fred, il sassofonista protagonista, sulla fedeltà della moglie Renee. […]
Quanto all’eroe, tornato a essere Fred nello svolgersi della spirale infinita della storia, non può essere fermato da nessuna macchina della polizia. Perché è in un altro spazio-tempo che fugge, una quarta dimensione materializzata dalle inquadrature ipnotiche di una ‘strada perduta’, appena illuminata dai fari di un'auto che sprofonda in una notte senza fine. Le prime e le ultime immagini di un film il cui fascino non può essere apprezzato alla prima visione.
Philippe Rouyer, “Positif”, n. 431, gennaio 1997




Strade perdute
 è un film dalle proporzioni impensabili. Dà la sensazione di cambiare sempre dimensione, di far saltare i punti di equilibrio ben presto tremolanti, fragili, obbligando senso e ragione e perpetui aggiustamenti. Questo ‘mostro’ di film libera nel pensiero l’idea di illimitato e offre continui, debordanti rilanci sensoriali, pur sempre contenuti nel montaggio finale. Il settimo lungometraggio di David Lynch ha tutto della sintesi, di una sintesi mobile, persino commovente: sintesi dell’eterogeneo. Nessun genere può definire il film, nessun discorso lo riassume, nessun paragone lo chiarisce, nessuna polarità (fantastico/realista, intimità/esteriorità, lentezza/rapidità, figurativo/astratto) può contenerlo. Strade perdute condensa tutto ciò mentre spiazza lo spettatore, lavorando al cuore della non-rassomiglianza. […] Strade perdute, in maniera davvero notevole, trasforma, spinge lo spettatore ad attardarsi all’interno delle forme – quelle dei corpi, delle figure, dei luoghi, degli oggetti, delle emozioni, dei pensieri. Da cui l'impressione di un'avventura estetica limite, dentro spazi-tempi intercalati, che disegnano il contorno incerto di un purgatorio. L’immagine-cristallo di questo purgatorio sarà dunque il bungalow nel deserto. Sospesa tra tanto e niente, ritornata da una disintegrazione che ha tutta l’aria di una purificazione nel fuoco, la casa è un blocco impenetrabile di senso, da cui si attende qualche scossa rivelatrice nel fuggevole intervallo dei suoi pezzi rimessi in piedi.
Guy AsticLe Purgatoire des sens. Lost Highway de David Lynch, Dreamland, Parigi 2000




Di tutti i film di David Lynch, Strade perdute è in effetti il più stupefacente, tanto confonde le piste narrative e permette di accumulare le ipotesi interpretative. Il cineasta rivela un talento consumato nella capacità di distribuire segni ambigui, di creare un clima di cospirazione permanente e di giocare con le ambientazioni. […] Dopo una prima mezz’ora orchestrata ai massimi livelli dell’insolito e costruita sulla coppia formata da Fred e Renee Madison (Bill Pullman e una Patricia Arquette in versione castana), Strade perdute cambia del tutto, in termini di rotta e di coppia. I personaggi principali del film diventano ora Pete Dayton (Balthazar Getty) e Alice Wakefield (interpretata sempre da Patricia Arquette, questa volta bionda). Con una sorta di circolarità narrativa, Fred Madison, che di professione fa il sassofonista, ricompare nelle sequenze finali di Strade perdute, facendo terminare il film esattamente al punto in cui era iniziato. Questo principio di narrazione schizofrenica svolge evidentemente un ruolo decisivo nella destabilizzazione suscitata dalla pellicola, poiché impedisce chiaramente qualsiasi principio di identificazione, sbarrando ogni accesso privilegiato al senso.
Thierry JousseDavid Lynch, Cahiers du Cinéma, Parigi 2010




Quando si tratta di autentica paura cinematografica […] quella di Lynch non ha rivali. Questo è un horror post-genere: non procura veri e propri shock, ma lavora sull'evocazione dell'inquietudine attraverso suoni minimali e doom metal a tutto volume, offrendo momenti oscuri che si trasformano rapidamente in spaventosa chiarezza. Dopo cento anni di cinema, è ancora possibile realizzare un film davvero terrificante.
Kim Newman, “Sight and Sound”, n. 9, settembre 1997