Il cinema italiano ha sempre avuto un rapporto controverso con la rappresentazione dell’omosessualità, basato nel migliore dei casi su un prudente non-detto, nel peggiore dei casi su un estremo macchiettismo. Negli anni le cose sono, per fortuna, cambiate e dalla caratterizzazione ambigua dello Spagnolo in Ossessione (1943) siamo arrivati alle narrazioni più consapevoli del cinema e soprattutto della serialità televisiva contemporanea.
La tendenza dominante, però, è stata spesso e volentieri quella di costruire personaggi impossibilitati a vivere la propria omosessualità in maniera libera, ostacolati da una forma mentis sociale e generalizzata o addirittura dai propri personali pregiudizi. Da questo punto di vista stupisce che fino ad oggi nessuno avesse mai adattato per il grande schermo il delitto di Giarre, simbolo della violenza di genere ed evento epocale nella storia culturale della comunità LGBTQ+ in Italia: si trattò, infatti, del caso di cronaca che portò alla fondazione dell’Arcigay nel 1981 e in generale rappresentò l’inizio della fase contemporanea dell’attivismo italiano. Oggi con Stranizza d’amuri (2023), primo film da regista di Giuseppe Fiorello, questa storia viene finalmente proposta al cinema.
Fiorello e Andrea Cedrola, i due sceneggiatori, si prendono la briga di cambiare i nomi dei personaggi e di romanzare un po’ la vicenda, ma i riferimenti principali vengono mantenuti. La Sicilia degli anni Ottanta è raccontata con una grande dilatazione dei tempi, caratteristica dell’ozio estivo, scandito dai mondiali di calcio e dai bagni. Questa lentezza nel racconto consente a Stranizza d’amuri di raccontare con grande cura tutte quelle figure ancillari rispetto al nucleo narrativo principale, delle maschere quasi teatrali che caratterizzano il mondo diegetico, senza dubbio la parte migliore del film.
Per quanto Fiorello dimostri di cavarsela dietro la macchina da presa, è evidente una certa ripetitività nella raffigurazione di quel tipo di atmosfera caratteristica di coming of age d’ambientazione anni Ottanta – in più di un’occasione la mente di chi guarda va inevitabilmente a Estate ’85 (2020) o Chiamami col tuo nome (2017) – che di certo non aiuta a caratterizzare con originalità un film abbastanza ordinario nella sua confezione.
Tuttavia, a deludere soprattutto è il fatto che un film che racconta un evento così importante per la storia dell’attivismo LGBTQ+ finisca per calarsi in un sistema di rappresentazione estremamente convenzionale e caratteristico di una visione ancora poco matura. Stranizza d’amuri dimostra ancora una volta quanto sia difficile per il cinema rappresentare la sessualità gay, raccontare per immagini il sesso tra due uomini senza limitarsi a suggerire o nascondere.
Si percepisce chiaramente quanto sia stato difficile in fase di sceneggiatura raccontare con naturalezza la storia d’amore tra Nino e Gianni, che nel film non ha mai alcuna giustificazione, si fatica a percepire un reale sentimento tra i due personaggi, che sembrano amarsi più per esigenze di sceneggiatura che per una reale costruzione narrativa. Questa purezza dei personaggi e questo sentimento disinteressato che li unisce, che passa anche attraverso la difficoltà del film di pronunciare le parole “gay” o “omosessuale”, non contribuisce certo a offrire un nuovo standard di rappresentazione dell’omosessualità al cinema.
Certo, nessuno pretendeva che Stranizza d’amuri avesse questo compito, tuttavia data l’importanza del soggetto che andava a trattare, ci si sarebbe aspettati una maggiore propensione ad osare, a non utilizzare il fuoricampo come scorciatoia per “proteggere” lo spettatore.