Conosciuto in Italia con il titolo de I figli della violenza, Los Olvidados rappresentò l’ingresso di Luis Buñuel nella storia ufficiale della settima arte: girato in 18 giorni con un budget di appena 450.000 pesos, non solo garantì al regista aragonese non solo il Prix de la mise en scène al Festival di Cannes, ma di fatto ne terminò l’esilio artistico. A seguito del dittico composto da Un chien andalou e L’âge d’or, il nostro aveva toccato il campo del documentario realista (pur mantenendo alcuni stilemi surrealisti), con un prodotto che riprendeva le difficili condizioni di vita nelle zone montuose dell’Estremadura: uscito tre anni prima dello scoppio della guerra civile, Las Hurdes non incontrò né il favore del pubblico repubblicano, né tantomeno l’apprezzamento della destra monarchica.
A distanza di quasi vent’anni, divisi tra l’impegno per la causa repubblicana e le alterne fortune a Hollywood, Los Olvidados rappresenta il primo film in cui compaiono quei tratti caratteristici che verranno definiti buñueliani; nondimeno, la critica ha trovato non poche difficoltà nel categorizzare il lungometraggio del 1950, diviso tra le paternità neorealiste e surrealiste. Comparando l’opera con le prime espressioni cinematografiche del suo padre artistico, l’osservatore medio faticherebbe ad immaginarsi i quattro prodotti citati come frutto della stessa mente. D’altro canto, l’anno di uscita e la focalizzazione nelle bidonville di Città del Messico rende ineludibile il confronto con il panorama del neorealismo. E quindi, in definitiva, si può parlare di una pellicola surrealista o di un parto neorealista?
Uno dei dati più interessanti dell’opera risulta proprio nel posizionamento ambiguo del film rispetto alle correnti artistiche cui strizza l’occhio. Come un osservatore neorealista, Buñuel trascorse sei mesi nei quartieri poveri della metropoli messicana, mescolandosi nel sottobosco sottoproletario e registrandone i tratti sociali; tuttavia, basta ascoltare la voce narrante nel prologo per comprendere l’anelito globale del film, che mette in secondo piano i tempi e i luoghi veri della vicenda. In qualche modo, la focalizzazione su un panorama pre-urbanizzato dai tratti mitici e l’ottica anti-positivista dell’autore sembrano più accostabili al successivo cinema pasoliniano, piuttosto che al neorealismo zavattiniano (per quanto l’aspetta della vicenda non possa non rimandare a Sciuscià).
Per la sovrapposizione di realismo e irrazionalità onirica, I figli della violenza è apparso ai suoi spettatori come liminare alla corrente letteraria del realismo magico, il cui humus creativo si formò proprio a partire da autori latinoamericani (citiamo per brevità Borges e Carpentier), salvo raggiungere l’apice della sua diffusione in corrispondenza con la produzione di Gabriel Garcia Marquez. Anche in questo frangente, però, l’esigenza della categorizzazione si scontra con una realtà molto più articolata: ad esempio, solo l’influenza dei surrealisti parigini subita dai primi autori collegabili al realismo magico va a problematizzare qualsiasi divisione netta tra le due correnti.
In ogni caso, esistono innegabili divergenze tra le due forme artistiche. Nei romanzi di Marquez e Borges, l’elemento magico non è in opposizione con le vicende realistiche dei personaggi, ma si amalgama ad esse, creando un immaginario in cui i fatti sovrannaturali sono messi sullo stesso piano con gli elementi di realtà. All’interno della pellicola di Buñuel, viceversa, esiste un confine tra i due mondi, che coincide con la distinzione tra sonno e veglia: la dimensione magica coincide con il mondo dei sogni, ovvero con l’esplosione inconscia delle pulsioni represse durante il giorno. Questa bipartizione, assente negli scenari del realismo magico, ha fatto sì che alcuni critici abbiano avvicinato – più o meno provocatoriamente – la pellicola alla tradizione surrealista: ma, come detto in precedenza, la potenza delle immagini del capolavoro buñueliano non ha bisogno di classificazioni per bucare l’occhio dello spettatore.
Per dirla come André Bazin: “Non dimenticheremo mai questo pezzo di carne, palpitante come una piovra appena uccisa, offerto da una madre sorridente come una madonna. Non dimenticheremo neppure quel povero cane bastardo e rognoso che traversa l'ultima notte della coscienza di Jaibo, morente in un campo abbandonato, la fronte coronata di sangue”.