Con la sua versione di Suspiria, Luca Guadagnino maneggia il capolavoro di Dario Argento riplasmandolo secondo la propria indole. Smussandone i toni parossistici e desaturando l’aggressività che contraddistingue il comparto visivo dell’originale, il regista palermitano impone un ritmo meno sostenuto alla propria creatura, la quale nel suo blando incedere si rivela molto più radicata nel contesto storico che la circonda. Pur senza mostrare un particolare interesse storiografico, questo essere si lascia pervadere dal clima di tensione che affliggeva la Berlino del 77, traendo da esso la propria linfa vitale, il nutrimento attraverso il quale alimentare la propria tensione crescente.
Accantonando l’esagitata foga delle musiche progressive rock dei Goblin in virtù delle più consone e sobrie melodie realizzate da un inedito Thom Yorke, questo è un film che si rifiuta di strillare la propria strabordante ferocia, rivelando semmai l’intento di sussurrare (sospirare) le proprie angosce all’orecchio attento del proprio interlocutore. L’arrivo di Susie (Dakota Johnson) alla scuola di ballo diretta da Madame Blanc (Tilda Swinton) e di fronte alla setta delle sue accolite che in lei cercano una mite vittima da consumare, perde le precedenti spoglie di caotico ingresso nell’incubo per tramutarsi in un esordio quieto, ma ugualmente disturbante e sinistro. Il Male scaturisce attraverso una via più intima ed epidermica; esso non circonda Susie avvolgendola nella propria morsa, ma emerge dal suo corpo, dalle sue movenze e si manifesta nelle reazioni che esse innescano su chi le sta attorno, a partire dallo sguardo vorace della stessa madame Blanc che si nutre di ogni movimento partorito dalla giovane ragazza.
Sotto questo aspetto Suspiria si palesa come un’opera eminentemente figlia del regista che l’ha portata in scena. Guadagnino adegua la propria dote di architetto della sensorialità alle esigenze del genere horror, forgiando delle sequenze in cui il terrore trasuda dalle pulsazioni dei corpi. Laddove in Chiamami col tuo nome o Io sono l’amore, si poteva assistere alla deflagrazione di vertiginose vampate erotiche, in Suspiria si ha la cronenberghiana sensazione che oltre il piacere della carnalità si nasconda qualcosa di putrescente. Nondimeno, pur presentandosi attraverso una massiccia dose di trovate autonome, Guadagnino tradisce una serie di rimandi alla filmografia argentiana che si rinvengono in vari aspetti, a partire proprio dal fascino sinestetico di cui vengono pervase le sequenze spettacolari.
Laddove Argento riusciva ad animare le proprie efferate scene di furia omicida investendole di una carica quasi sessuale, Guadagnino punta all’evocazione di una violenta aura funerea partendo dall’armonia coreografica di macabre sequenze danzate. Ma il principale tributo risiede, tuttavia, nella volontà di aggredire lo spettatore, giocando con le sue aspettative e stravolgendole con virate narrative inattese, attraverso un epilogo squilibrato e dirompente. Una cifra canonica del cinema di Argento, il quale, nonostante l’inopportuno paragone con Hitchcock conferitogli all’epoca degli esordi, si è spesso distaccato dai convenzionali metodi di costruzione delle suspense in virtù di percorsi più tortuosi, imprevedibili e drastici. Con la medesima baldanza, Guadagnino (assistito dallo sceneggiatore David Kajganich) mira alla preparazione del proprio gioco di prestigio confondendo e depistando gli sguardi al fine di garantire un’eco più roboante al lacerante affondo finale.
Questo nuovo Suspiria nasce dunque dallo scontro tra lo stile personale del suo autore e l’eredità cinefila che egli si porta appresso, le quali cozzando brutalmente, finiscono per fondersi in una danza che ai nostri occhi si manifesta come un saggio ibrido e meraviglioso sulla persistenza e l’evoluzione delle forme cinematografiche.