La borghesia è morta, viva la borghesia!

Milano, 1968. Nella villa di un ricco industriale piomba un ospite misterioso a distruggere il sacro ordine borghese del pater familias, dei figli, della moglie e della domestica. A turno, tutti i membri della famiglia si lasciano attrarre dalle voglie sessuali dell’ospite e sono costretti a guardare l’immagine della propria coscienza di classe distrutta.

Secondo la visione di Pasolini, la borghesia ha vinto, soppiantando qualsiasi resistenza ideologica e morale, o meglio, si è trasformata in una pan-borghesia per mano e per bocca dell’ospite inatteso (Terence Stamp) che respinge nel vuoto esistenziale ogni facoltoso personaggio entrato in collisione sessuale con lui. Del resto è Pan o Dioniso, il corpo è la sua lusinga, usa un linguaggio non convenzionale che spezza le granitiche identità di classe, come il divoramento cannibalico che diverrà, in Porcile, segno non linguistico per raccontare la disumanizzazione di una società satrapica. 

Il ‘68 di Pasolini è la morte del “sogno estetizzante” attraverso cui lo scrittore aveva rappresentato spazi e luoghi nell’Edipo Re. La visione onirica si svuota e si rovescia in incubus ipnotico, si decostruisce mentre l’immagine campeggia in tutta la sua pienezza, senza nessuna didascalia, la parola si raffredda e viene centellinata, diluita in motteggi vani e monologhi tragici che sono il portato della complessa genesi di Teorema: nato come un prosimetrum, è trasformato dall’autore in un lungometraggio silenzioso e geometrico.

Portando a compimento il film, lo stesso regista aveva allontanato le atmosfere del sogno formale mitologico, inscenando un’allegoria schematica e rigida, completamente risucchiata nel grottesco cul de sac che avviluppa la famiglia preda di un enigmatico deus ex machina: il mondo razionalista borghese, senza più un esercito, una nazione o una chiesa da opporre in una oramai illusoria lotta di classe, avrebbe finito per calare l’intera società in un rinnovato e contorto ordine capitalista. 

Il teorema pasoliniano è fin dal principio un serpente uroboro dilaniato da una sessualità “linguistica” e dal sacro esibito, difatti il prologo, gonfio di parole e parossistico nelle riprese – un cronista intervista alcuni operai che hanno ricevuto in dono dal padrone una fabbrica -  racchiude in sé l’inizio e la fine di tutto, metaforicamente rappresentati dallo svuotamento identitario al quale giungono gradualmente tutti i personaggi-marionetta messi in scena: da Emilia, la domestica che sceglierà l’estasi e infine il ritorno alla terra madre e la trasformazione in una fonte sorgiva, al padre, vero simbolo di perdita e alienazione, respinto nel deserto dell’esistenza dopo essersi spogliato dei propri abiti in un nitido simbolismo francescano.

La landa desertica calpestata dal padre, a partire da Accattone, sarà un leitmotiv ricorrente nella poetica pasoliniana dello svuotamento del sé che non può più ricongiungersi ad altro da sé, mentre sparirà in Salò, divorato dall’abiezione più nera, quella che inghiotte per sempre l’innocenza della classe media nelle camere fasciste di tortura. In un deserto freddo e barbarico, risucchiato come figura esiliata e non più  riconciliata, si trova a girovagare lo stesso Pasolini dopo le feroci azioni censorie mosse dallo Stato, dagli ambienti conservatori e dalla chiesa cattolica al suo film-poema che ha saputo connettere coraggiosamente le sfere del sacro e della liberazione sessuale.

Il conflitto che si consuma fra le rigide geometrie domestiche della villa, dove ognuno dei personaggi perde per sempre la propria borghese “verginità”, è la stessa del regista, avversato da bigotti e radicali per aver rivelato alla società l’avvento dell’ “angelo sterminatore” sempiterno. La borghesia è morta, viva la borghesia!