Nelle sequenze iniziali del Batman di Matt Reeves, il nostro sguardo resta imprigionato nel vetro. Neanche il tempo di abituarci al buio della sala e siamo già voyeur nostro malgrado, costretti nella visuale di un binocolo. Una manciata di scene successive ed eccoci passare dalla vetrata di un minimarket a quella (infranta) di una banca. E ancora: dal finestrino macchiato di pioggia di un treno metropolitano alla porta a vetri che separa due vagoni, per ritrovarci, infine, a fissare lo schermo di uno smartphone. Una messa in scena che ragiona fin da subito sul fenomeno dell’intravisione, del sorvegliato e del sorvegliante, e che sceglie di farlo attraverso il montaggio, il più alto vagheggiamento delle illusioni.
È quindi facile intuire quanto il titolo di questo Batman – non “uno dei”, ma proprio The Batman – non citi soltanto le origini editoriali del personaggio, ma rivendichi la ricerca di unicità concettuale nel mare retromaniaco di multiversi e rimanipolazioni. E sì che Matt Reeves di rimaneggiamenti se ne intende: da Let Me In – remake Hammer del cult svedese Let the Right One In – ai capitoli due e tre del prequel-reboot di Planet of the Apes. Una doppietta riuscita benissimo – nella fattispecie, War for the Planet of the Apes resta una perla rara in quel mare magnum transmediale – che ci conferma quanto Reeves sia un abile riformatore. Un autentico trasformatore di mondi e linguaggi popolari, dall’horror alla sci-fi passando per il found-footage e il monster movie.
Proprio per questi motivi è difficile figurarsi un’altra “persona giusta al momento giusto”, capace di raccogliere il testimone cinematografico di un’icona pop come Batman. The Batman, L’uomo pipistrello, proprio questo qui. Non quello del DC Extended Universe interpretato da Ben Affleck, né il Michael Keaton goth-giocattoloso di Tim Burton, men che meno quello serissimo di Nolan, col volto duro e glaciale di Christian Bale. Quello di Matt Reeves è un progetto che mira fin dalle premesse a risultare diverso nelle strategie estetico-narrative, e al contempo conforme.
“Conforme a chi, conforme a cosa?” E, soprattutto, quali aspettative? Quelle dei fumettofili? Dei fan di Burton? Dei fan di Nolan? Degli strenui seguaci Warner/DC, ancora affamati di “continuity”? Un po’ di tutti, un po’ di nessuno. The Batman si allinea a una regola d’oro: il mondo di Bruce Wayne e del suo alter ego, il microcosmo di Gotham City, è dark. E Matt Reeves fa di questo principio una consapevolezza da spolpare, raccogliendo ed estremizzando le riscritture (quasi bibliche) dei fumetti di Frank Miller e Jeph Loeb.
Il soggetto diventa un mix originale di Anno Uno e Il lungo Halloween, così come il costume del nostro eroe – il quale, è bene ricordarlo, di “super” non ha niente, se non l’acume investigativo e una fortuna da sperperare in armi-giocattolo – diventa l’anello di congiunzione tra avanguardismo e incapacità di adattamento. Un crociato un po’ goffo nel suo incedere militaresco, corazza e (pochi) gadget fanta-tecnologici, cappa e maschera fetish.
Robert Pattinson, più che opposto agli agenti del Caos con principi inamovibili di ordine e giustizia, è il Batman vittima del PTSD (Post Traumatic Stress Disorder). Non lo scapolo d’oro con un lato oscuro e tormentato, ma un freak dentro e fuori l’alter ego. Ammanettato ai fantasmi di un’infanzia negata, gioca a fare il soldato nonostante sia molto più credibile come detective, vigilante a tratti impacciato e quasi costantemente alienato. Il suo sguardo non è truce ma perso nel vuoto di traumi e ragionamenti, pulsioni di rabbia e vendetta che ne zittiscono la disciplina.
In una Gotham nerissima e a tratti rossa come un’alba di fuoco (la fotografia è di Greig Fraser, reduce dalle pluripremiate fatiche di Dune), i personaggi assorbono un’atmosfera cupa, apocalittica. Siamo fuori dal tempo e allo stesso tempo immersi in un’attualità inquietante, dove i villain si dividono in corruttori, corrotti e fanatici. Da una parte, il Pinguino (Colin Farrell, irriconoscibile) e Carmine Falcone (John Turturro), fortunati stereotipi del gangster italo-americano, dall’altra i politici e un’intera – o quasi – forza di polizia deviata. Dall’altra ancora l’Enigmista (Paul Dano), archetipo del folle genio che flirta col complottismo social in odor di QAnon. Nel mezzo, Catwoman (Zoë Kravitz, in un omaggio filologico alla Selina Kyle di Anno Uno), con motivazioni ambigue ma più umane di quelle del protagonista.
E a proposito di Paul Dano, la vera star di questo film: si è già parlato di quanto il suo Enigmista sia stato plasmato sui profili conosciuti del serial killer Zodiac, molto meno di quanto si muova specularmente rispetto alle caratterizzazioni di questo Batman. Due personaggi separati nella morale ma non nell’approccio, e a ben pensarci in lotta contro lo stesso “Nuovo Ordine Mondiale.” Così disadattati e fuori dall’ingranaggio sociale da alimentarsi a vicenda, con convinzioni opposte e psicosi in comune. C’è tanto Fincher in questo Reeves, ma con una visione personale che entra ed esce dalla tensione a proprio piacimento.
The Batman non è una “fiaba oscura” né “il Batman definitivo”, ma un ibrido che si assesta con timida sicurezza tra il cinecomic cosiddetto e la New (New-New?) Hollywood. Una liturgia noir che suggerisce l’hard boiled con meno compassione e realismo del Joker di Todd Phillips, senza dimenticare le frustrazioni e le nevrosi del contemporaneo. E sulle variazioni dell’Ave Maria di Schubert firmate da un Michael Giacchino in grande spolvero, diventa ancora più appropriato perdersi nell’altro tema del film, Something in the Way. Sono i Nirvana più funerei che Reeves sceglie come manifesto del suo Batman: familiare, solenne, ma libero di de-costruire un’intera mitologia. Tanto smisurato nel ritmo e nella durata, quanto indipendente nella sua lugubre fantasia.