“You’re singing for yourself and the boys in the band” (“Canti per te stessa e i ragazzi della band”) esclama James Mason a Judy Garland in È nata una stella (1954). Da questa battuta del film di Minnelli prende il titolo la leggendaria opera teatrale di Matt Crowley che, nel 1968, portò l’omosessualità, ancora al tempo definita una malattia mentale, allo scoperto sul palcoscenico di Broadway non come dettaglio accessorio ma come principale forza narrativa. Come nella battuta rivolta a Judy Garland, icona gay intramontabile, il testo di The Boys in the Band mira a rendere visibile quello che fino alla sua messa in scena era rimasto nell’ombra: che le storie, i drammi, le lacrime e le risate di una festa privata di compleanno tra amici omosessuali diventino di pubblico dominio senza vergogna.
Per il cinquantesimo anniversario dell’opera di Crowley, Joe Mantello ha diretto, inizialmente, una ripresa teatrale a Broadway e, successivamente, la trasposizione cinematografica per Netflix con lo stesso ottimo cast, tutto composto da attori omosessuali di successo. Già adattato per il cinema inizialmente da William Friedkin nel 1970 con l’elaborato titolo italiano Festa di compleanno per il caro amico Harold, il testo di Crowley viene riproposto fedelmente nella versione di Mantello, fin dall’ambientazione della fine degli anni 60 che non viene “modernizzata”, come spesso avviene in trasposizioni e remake contemporanei, ma anzi ricostruita fin dagli ambienti e costumi con puntiglioso orgoglio. Tale ricostruzione non è solo estetica ma abbraccia anche l’agenda politica: le nevrosi e i conflitti del gruppo di amici omosessuali che emergono quando il loro ospite Michael li esorta, durante una festa di compleanno, a telefonare all’unica persona a cui vorrebbero dire “ti amo” sono quelli di un mondo prima dei moti di Stonewall, di poco successivi alla prima dello spettacolo, e prima dell’avvento dell’AIDS.
Proprio nel mostrare un mondo senza diritti, in cui l’appartamento di Michael è un luogo sicuro rispetto alla disapprovazione e disprezzo del fuori, ma, al tempo stesso, un invito al gioco al massacro e all’auto-distruzione tra gli amici che di quella disapprovazione certamente risentono, sta la ragion d’essere politica di un remake di un testo e film non sempre incondizionatamente amati dalla comunità gay. Nel fondamentale e pioneristico studio sulla rappresentazione dell’omosessualità al cinema, Lo schermo velato (1984), Vito Russo definisce il film di Friedkin come un “freak show” che mostra le nevrosi e l’infelicità degli omosessuali, diventando una rassicurante fonte di studio di quel mondo che lo rende radicalmente “altro” per il pubblico eterosessuale. Rivedere The Boys in the Band dopo Stonewall e le vittorie legislative sulla parità dei diritti, peraltro ancora non pienamente né uniformemente raggiunta, ci ricorda anche cosa vuol dire una società senza quelle tutele e ci insegna che la militanza ha un senso.
L’appartamento di Michael è anche un luogo senza AIDS, in cui, tuttavia, l’epidemia è irrimediabilmente entrata al di fuori della finzione narrativa. Recentemente, il cast del film originale è stato celebrato sul canale Instagram da The AIDS Memorial, ricordando le vite degli attori della versione degli anni 70 perse per il virus e mostrando contemporaneamente il cast moderno con la t-shirt del progetto che vuole conservare le storie di chi ha perso la vita, spesso in silenzio e disprezzato. Inoltre, sia il produttore, Ryan Murphy, che il regista, Joe Mantello, come gli attori Matt Bomer e Jim Parson, hanno contribuito al successo di The Normal Heart (2014), atto d’accusa verso i governi repubblicani di Reagan e Bush per le loro inefficaci politiche di contrasto all’AIDS.
La radicalità della nuova versione di The Boys in the Band sta anche in questo simbolico passaggio di testimone tra generazioni di attori omosessuali e nella duplice implicazione che la memoria di chi è morto in silenzio e lontano dalle luci della ribalta vive nella nuova generazione e che anche il loro coraggio permette, oggi, di non concepire omosessualità, divismo e militanza come mutualmente esclusivi.