Al suo terzo lungometraggio da regista, Brady Corbet cementifica la sua concezione del cinema come specchio epicizzante della modernità. Terzo lungometraggio e terza biografia fittizia di una personalità simbolo della propria epoca, la cui vita diventa spunto drammatico per uno squarcio sul mondo che l’ha portata all’emersione.
Questo è The Brutalist, il lavoro produttivamente più ambizioso del regista e affermazione definitiva della sua autorialità. Un racconto che si dispiega per la maggior parte della poderosa mole (215 minuti a coprire un tempo diegetico di oltre trent’anni) entro i confini statunitensi, pur mantenendo un fortissimo legame con l’Europa, così come il suo protagonista.
Lázló Tóth (un Adrien Brody al suo meglio) è un architetto ungherese in fuga dall’inferno nazista che trova la possibilità di essere rimesso al mondo attraccando su suolo americano, in un prologo folgorante inscenato come una nascita in soggettiva di un uomo idealmente partorito dalla Statua della libertà.
Ha così inizio quella che potrebbe essere una classica parabola dell’american dream, ma la linea di demarcazione tra sogno e incubo, nelle mani Corbet, è tutt’altro che netta, con l’innesto di una serie di macigni emotivi a gravare su un’ascesa gloriosa che viene lungamente perseguita senza mai concretizzarsi appieno. Isolamento, dipendenza da droga e lo spettro latente dell’origine straniera che, anche nella terra di tutti, pesa come uno stigma indelebile.
È la formula maledetta della grandezza, con il suo lato oscuro che si espande, irreprimibile, fino ad essere abbracciato e integrato. Come una pop star che edifica il proprio successo sulla fortuita sopravvivenza ad una strage scolastica, o un capo di stato che costruisce la propria personalità attraverso una serie di scatti d’ira.
Lázló Tóth trova la propria forma di espressione ponendosi supinamente al servizio di una classe borghese accomodante, ma per cui non risulta che essere nient’altro che uno strumento, un mestierante straordinariamente dotato, da imbonire e sfruttare, ma sempre relegato al suo statuto di inferiorità.
Sono gli Stati Uniti, dipinti con sferzate sontuose a comporre la terra delle opportunità come un organismo spietato, corrosivo, che ingloba tutti gli elementi che lo fortificano per poi risputarli come dei corpi morti. La doppia anima di un Paese nato dall’immigrazione e sviluppatosi come potenza imperialista, terribilmente assetato di conquista fino al prosciugamento di ogni diversità acquisita.
È un’identità nazionale mostruosa, famelica, quella che lentamente ma in maniera inesorabile emerge da questo potente apologo, a metà strada fra la magniloquenza leoniana di C’era una volta in America e la brutalità de Il petroliere di Paul Thomas Anderson.
Ma la straordinarietà di Corbet risiede ancora nel saper trovare una voce propria, in piena continuità con i precedenti Vox Lux e L’infanzia di un capo, in grado proseguire la sua tragica e epopea americana, perseverando nel perfezionamento di un linguaggio cristallino ed elegante nella forma quanto tenebroso nelle implicazioni morali. Un racconto di dimensioni immani, la cui complessità non può essere immediatamente percepibile, in grado di parlare della realtà, emulandola attraverso una finzione talmente dettagliata da rasentare la falsificazione.
Sorretto da un fascino misterioso, denso e stratificato, la potenza di questo film si sprigiona con il tempo, attraverso il maturare di una distanza emotiva che permetta di incasellare la moltitudine di spunti disseminati lungo il percorso. Come un’opera architettonica che per essere pienamente valutata deve sì essere vissuta nei suoi singoli spazi, ma anche ammirata dall’esterno, da una distanza che consenta di percepirne la visione d’insieme, il nuovo film di Brady Corbet ha la capacità di espandersi con lo scorrere del tempo, necessitando uno spazio temprale trascendente quello della visione.
Così come il male espanso ed impalpabile che riesce mirabilmente ad inquadrare, instillato a piccole dosi, ma in grado di corrompere nel profondo sulla lunga distanza, The Brutalist pervade e ammalia secondo modalità inattese, dapprincipio sovrastante e caotico per poi affermarsi inesorabile in tutta la sua maestosa bellezza.