In Incontri ravvicinati del terzo tipo, il protagonista Roy Neary strappa un ritaglio di giornale che aveva appeso nel suo “santuario” ufologico in cui campeggiano le parole “Ufos seeing is believing”; Steven Spielberg ci ricordava già nel 1977 che le immagini, indipendentemente dalla tematica esopolitica e sociologica (di cui è espressione un film per troppo tempo relegato nella sfera dell’escapismo americano tout court), diventano un ideale tramite il quale si può creare un immaginario e lo si può rendere credibile.

Il piccolo Sammy, in The Fabelmans, autobiografia romanzata della famiglia Spielberg, cerca addirittura di afferrare tutti quegli “ideali”, estasiato dalla luce del proiettore che lo conduce in un universo onirico e seducente. I pezzi di luce che racchiude nel palmo della mano lo investono come un atto di fede, mentre la sua famiglia è destinata ad andare in frantumi a causa della separazione dei suoi genitori. La sua storia in parte è quella di Spielberg, co-sceneggiatore insieme a Tony Kushner della sua prima vera commedia drammatica, indagine sentimentale di una vocazione che non diventa mai lezione di cinefilia, ma il resoconto affettuoso di un sogno privato che rinuncia al camuffamento (fanta) autobiografico come nel dittico Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo ed E.T.

Ironico e sentimentale tourbillon de vie dedicato alla madre artista (una commovente e straripante Michelle Williams), l’ultima opera del cineasta stempera il dramma ebraico grazie all’agile e caustica scrittura di Kushner, mentre lo sguardo del regista modella la cronaca familiare gettando uno sguardo sognante su tutto ciò che è composizione e ri-composizione di storie: cucite insieme, manipolate e consegnate agli spettatori. L’idea di cinema di Spielberg la si scorge già negli home movies girati da Sam, alter ego di Steven, adolescente avanguardista incapace di appiattirsi alla convenzionale ripresa televisiva per rivolgersi invece, con la sua Super-8, all’illuminazione dinamica di un mondo brulicante di quotidianità, tradimenti e spettacolari collisioni; attraverso essa cattura la vita familiare, la esibisce e in alcuni casi la falsifica per creare una prospettiva esistenziale migliore, per lenire i conflitti in famiglia, rielaborare il bullismo antisemita subito a scuola e affermare con forza la sua passione per il controllo e l’esibizione dell’immagine.

La poetica di Spielberg non è strettamente rinchiusa nell’ottica di una “cinematic society” o nella visione di un autore che cerca l’integrazione dell’individuo nella collettività (americana) della storia, ma è centrata sul punto di vista interno di un cinefilo che ripercorre le tappe della sua formazione senza alcun coup de théâtre, nel concepimento di un “lessico familiare” poeticamente denso e talvolta affilato, che affonda le sue radici in un solo grande movimento cinematografico, il suo, rischiarato dai volti in estasi, svelato dalle impetuose carrellate in cui si palesano il feticismo americano, l’idealizzazione sofferta dell’american way of life, la rappresentazione della famiglia disfunzionale e il cinema come cura e riabilitazione.

The Fabelmans è la storia di un ragazzo “nato con una macchina da presa attaccata agli occhi” – come disse il regista in un’intervista -, invaso dallo stesso istinto “biologico” di cui parlava Bergman quando fantasticava sui ventiquattro quadratini illuminati al secondo e tra di essi, il buio, che attrae ma fa anche paura; Sammy Fabelman, la esorcizza, l’oscurità della sala, la trasporta in ogni istante della sua vita, ci si tuffa dentro e sbuffa come un treno in corsa già nei suoi primi, grandi “viaggi”, dalla verticalità delle vecchie città industriali, all’orizzontalità di una periferia omologante, prima di raggiungere la California dei grandi orizzonti fordiani.

La sua esistenza scorre sferragliante, proprio come il convoglio sui binari elettrici in The Last Train Wreck, il corto amatoriale che il giovane Spielberg realizzò a soli undici anni dopo esser rimasto colpito da Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. De Mille. In fin dei conti Spielberg partì dall’asfalto bruciante di Duel, prima di esplorare altri “strani, nuovi mondi”.