La svolta è circa a metà film, quando l’ipnosi che ha catturato il piccolo Sam quella prima volta al cinema con i genitori e gli ha messo in mano per sempre una macchina da presa genera un duplice frutto: rivelargli che in quello che ha ripreso c’è una verità di cui mai si era accorto, di quelle che fanno crescere all’istante, e permettere al suo regista, Steven Spielberg, di confezionare una sequenza di attesa e magia memorabili, che spiana la strada a tutto l’incanto successivo. Perché l’intero film, scopriamo da quel momento, è un processo di ipnosi allo spettatore, che lo coinvolge nella storia della famiglia di Spielberg -perché mai dovrebbe importarcene qualcosa, della sua come di quella del Cuarón di Roma? sono forse speciali?- e mette in scena la genesi del suo cinema attraverso le tappe della sua filmografia e la capacità subliminale del suo mezzo.
Il gesto cinematografico che guida The Fabelmans ricorda la stessa consapevolezza d’autore vista in Dolor y Gloria o in C’era una volta a Hollywood, quella in cui chi scrive e dirige film illustra proprio attraverso la sua arte perché ha scelto quel mestiere e perché al pubblico piace tanto esperirne le creazioni. O, riformulando come farebbe lo zio di Sam, perché si sceglie quell’arte (Art) e perché il pubblico ne è stregato (Heart). Cinema nel cinema per vedere davvero, come dice la mamma di Sam a suo figlio (“You really see me”); set di ripresa evidenti come in West Side Story, o in New York, New York; pubblico che accorre in sala per ricordarci dove siamo noi mentre guardiamo The Fabelmans; la famiglia di Sam che rincasa la sera dell’Hannukkah in quadri cittadini usciti da Velluto blu o Twin Peaks (vedere per credere, e aspettare il finale).
Non siamo di fronte alla storia straordinaria di un ragazzino che fa amicizia con un extraterrestre o perde i genitori e cresce solo durante la guerra, né di adulti che sbarcano in Normandia per liberare l’Europa dai nazisti o danno la caccia a criminali o truffatori. Siamo invece alla scoperta di come il futuro autore di quelle storie fuori dall’ordinario abbia costruito il suo stile facendo confluire in esso scienza e incantesimo, macchine e emozioni, padre e madre. Non lo si è forse sempre definito il migliore regista di bambini sulla piazza, ma anche un Peter Pan restio a farsi adulto? Bene, The Fabelmans ci dice da dove veniva quell’occhio speciale sull’infanzia e la crescita - il lato paterno, affettuoso e razionale - e da dove la fascinazione, fanciullesca ma persistente, per la favola e il fantastico - la mamma, eterna ragazzina sorridente in salopette, che riceve telefonate dall’aldilà ed è la vera Peter Pan di famiglia.
Quanto al dove posizionare quella macchina da presa venuta fuori da uno schermo come un treno in corsa e approdata fra le sue mani, la lezione al giovane Sam è impartita dal più classico dei registi, John Ford, interpretato a sorpresa da David Lynch, il meno cinefilo di tutti, orgoglioso di deragliare dalla tradizione dell’orizzonte che è la regola degli altri, Spielberg incluso, avendola lui spostata dentro, nel subconscio.
“La linea dell’orizzonte è in alto? Allora è interessante. È in basso? Allora è interessante. È in mezzo? Allora è fottutamente noioso!".