“Basato su una bugia vera” si legge prima dei titoli di testa (in inglese e cinese) di The Farewell, che in Italia uscirà con il poco grazioso sottotitolo Una bugia buona. Tratto, infatti, da un frammento estistenziale della regista e sceneggiatrice Lulu Wang, è il racconto dolce e struggente di una reticenza che si trasforma in una menzogna. Nonché di un ritorno a casa: quello della cinese Billi, emigrata negli States con i genitori a cinque anni, che torna nella terra natia dopo aver scoperto la malattia terminale della nonna. Per seguire una consuetudine della cultura locale (Billi ricorda con sofferenza l’analoga esperienza con la morte del nonno, negata fino all’ultimo), i parenti non intendono svelare la triste verità all’anziana signora, convinti che l’omissione – e poi il ribaltamento – sia il modo migliore per darle sollievo. Continuare a vivere come se niente fosse per sconfiggere l’inevitabilità della morte. Con l’obiettivo di riunire la famiglia per l’ultima volta, organizzano in fretta il matrimonio del cugino di Billi. Colpo di scena finale, più o meno.

Dopo il successo (ma non da noi) di Crazy Rich Asian, The Farewell costituisce un nuovo tassello della narrazione sulle minoranze rivolta alla fruizione di un pubblico popolare e trasversale. Se in quel caso c’era la commedia matrimoniale a rappresentare lo spazio in cui raccontare una comunità poco considerata dal cinema americano se non con stereotipi e macchiette, qui c’è l’universalità del family drama a favorire il coinvolgimento nell’avvicinarsi a una cultura diversa. Benché sia ambientato in Cina, il film è filtrato attraverso lo sguardo di una protagonista ormai cinoamericana alla ricerca di un equilibrio tra il sistema di tradizioni e costumi della società d’origine e l’adesione alla mentalità della terra che l’ha accolta e con cui intrattiene un rapporto complesso (lo spaesamento finale nella metropoli).

La interpreta, con trasparente malinconia, la rapper Awkwafina, da qualche anno attrice e qui alla prima prova davvero importante, da sottolineare anche per come gestisce il felice duetto con l’inedita Zhao Shuzhen, nonna vitalissima e adorabile che forse intuisce più di quanto credano gli altri. La forma adottata è quella del tipico dramedy indie, tra colori pastello che trasmettono ragionati intimismi e attenzione alle dinamiche relazionali di personaggi disfunzionali, e lo spirito è talmente leggiadro che è difficile non farsi stringere dall’abbraccio di un film così caldo e toccante. D’altronde il titolo è polisemico: l’addio non è tanto alla nonna ma a un’idea di casa. Sulla superficie una cerimonia degli addii, in profondità un coming of age.