Pochi giorni nella vita di una ragazza sola alla ricerca della sua identità sono in realtà un viaggio lungo e lento, riflessivo e sconclusionato. E, nel 1968, un film così semplice riesce comunque a parlare di rivoluzione. La protagonista Kati è infatti una donna moderna, libera da ogni vincolo morale e sociale, in parte per la sua condizione di orfana e in parte per il periodo in cui si trova a vivere, dove nelle grandi città irrompe una musica nuova e tutti lavorano e si mescolano nella ricerca spasmodica dell’uguaglianza. L’opposto di ciò che Kati trova andando alla ricerca dei genitori in un paesino dell’Ungheria, dove ancora le donne indossano il fazzoletto in testa e gli uomini comandano su ogni cosa, un mondo dove il suo errare scomposto, nei suoi abiti cittadini, desta la curiosità dei giovanotti che non riescono a capirla. Anche visivamente gli elementi bianchi del suo vestiario la separano dalla massa più scura degli abiti seri dei paesani.

La regista Márta Mészáros ha raccontato nel suo cinema l’emancipazione femminile, e in questo film interpreta un desiderio di affermazione molto personale. Non solo anche Mészáros è senza genitori, condizione comune con la protagonista, ma è importante sapere che la regista è riuscita con molta fatica a realizzare questo suo primo lungometraggio anche perché oscurata dal successo del marito, il regista connazionale Miklós Jancsó. A questo proposito, guardando alla carriera di Mészáros, The Girl appare come il film più moderato e meno controverso, forse proprio rispecchiando un sistema di auto costrizioni innescate dal contesto in cui l’autrice ha vissuto.

The Girl è un film che tematizza più propriamente la ricerca dell’identità. Kati cerca le sue radici come se potessero dirle di più su chi è e quale sarà il suo destino ma, quando scopre quanto è diverso quel mondo, lo abbandona per affermarsi in autonomia. Però comprendere chi siamo è difficile, e Kati non riesce a capire se sono sufficienti il suo sguardo indagatore, la sua voglia di ballare e il suo profilo che fende lo spazio circostante per ritenersi completa. Osserva gli altri per vedere la sua immagine riflessa e trovare una conferma del suo valore. Lo attestano i numerosi amanti e pretendenti, tra i quali alla fine sceglie colui che la annulla definitivamente, come ci racconta l’inquadratura dell’ultimo bacio, il cui il capo dell’uomo nasconde completamente il viso di Kati, quel viso talmente importante e preminente da riempire totalmente i titoli di testa.

Questo film si inserisce con successo in una riflessione più ampia portata avanti dai registi dell’Est Europa in quegli anni, in cui all’aumentata libertà delle donne aumenta anche la loro malinconia, un movimento depresso e laconico, dovuto spesso e volentieri proprio alla perdita di ogni certezza e alla difficoltà a trovare se stesse e accettare il giudizio altrui. Mészáros ci racconta questa tensione con un film all’apparenza innocuo, semplice, in cui una ragazza vaga per il mondo, intessendo piccole relazioni e cambiando prospettiva di continuo, accompagnata però sempre dalla stessa arguzia incorniciata dal taglio maschile dei capelli corvini. Per questo quando ci si chiede chi sia davvero Kati è difficile rispondere. È una filatrice, un’orfana, una donna a cui piace ballare o semplicemente una ragazza di Budapest? Per tutto il film sono gli altri a fornirci delle risposte, ma lei mai. E il suo film non può considerarsi concluso.