Il survival movie, oggi, riguarda un po’ tutti, e molto da vicino, come dimostra The Hunt di Craig Zobel, il film osteggiato dall’America trumpiana che in realtà mette al centro del mirino repubblicani e democratici, progressisti e liberali, popolo ed élite. Che di gioco al massacro si tratti è evidente sin dal titolo, che allude ad una caccia generica, mentre la sua vocazione politica la si comprende subito dopo l’iniziale carneficina, quando il campo, sgombro da equivoci, è inondato dal sangue di cadaveri dilaniati e infilzati. I sopravvissuti, dopo un’imboscata nel mezzo del nulla, sanno solo che devono rialzarsi, imbracciare le armi messe loro a disposizione e iniziare a combattere. Contro chi? Perché? Chi li ha condotti in una radura desolata? Questo è l’inizio di una spietata allegoria di un mondo in fiamme in cui non esistono comfort zone e in cui una ristretta cerchia di individui senza scrupoli innesca una guerriglia aperta contro la working class.

L’idea è quella alla base di Anarchia – La notte del giudizio o dello sgangherato ma efficace 31 di Rob Zombie, ma The Hunt ha un tono meno greve e la fierezza da action-movie a tinte dark. Zobel, riprendendo il racconto di Richard Connell La partita più pericolosa, realizza una distopia horror che erode le certezze del way of life a stelle e strisce e corrode anche le più rosee aspettative di redenzione, infrangendo e rovesciando completamente il sogno in incubo, la promised land in un’escape room a cielo aperto. Il survival movie ci riguarda tutti, perché non è solo un attacco politico all’élite guerrafondaia americana – le colpe ricadono anche sull’odio auto-alimentato da una “massa” informe incapace di reagire e costretta a fare il gioco dei potenti – ma anche alle false certezze di una borghesia liberal fintamente buonista, falsamente interessata al bene comune e subdolamente insignitasi del diritto di stabilire vita e morte dei “sudditi”.

La lotta sociale ai giorni nostri implica una svalutazione delle comunità operanti, sempre più ridotte a merci ambulanti con braccia e gambe: da spolpare, scarnificare e far saltare in aria, come ci fa vedere il regista nel suo parossismo pulp. Tanto sono numeri, ragionano per slogan e “twittano” stanchi cliché, a differenza della classe alta che pontifica e parla a briglia sciolta, senza mediazioni e senza ironia. L’elemento più interessante di The Hunt è la sua estetica fumettistica in cui giganteggia l’eroina muscolare Betty Gilpin, che scalcia come Rambo e calpesta cadaveri come un Terminator, e l’utilizzo di dialoghi spezzati e frasi lapidarie che irridono, con lo strale telegrafico da social media, il linguaggio tossico dell’informazione contemporanea. L’uomo si fa “merce” itinerante e gonfia di rancore violento, la sua parola diventa motto che riduce la complessità del mondo, in una rocambolesca fuga contrappuntata da iperboli chiassose e battute scostumate.

Il film fa sfilare carne da macello e inanella idee a metà e verità gridate senza concedere tregua allo spettatore, attraverso le divertenti e talvolta macchiettistiche esasperazioni action che fungono da piacevole intrattenimento. Per fortuna Zobel non dimentica di far andare di pari passo dileggio e sparatorie, attraverso cambi di rotta repentini, funzionali cali di tensione nella storia e momenti in cui solo un duello iperchiacchierato può ricondurre il film sui binari stravaganti di un sensazionalismo (americano) armato.