Insiste, Suzanne. Insiste nel chiedere, nel cercare, nel voler sapere e voler capire. Cosa c’è nel passato di suo padre Manfred che viene ricacciato nell’ombra ogniqualvolta sembra riaffiorare da una lettera, da una mezza frase, da un ricordo parzialmente condiviso o da un pacco ricevuto? Manfred è vago e la madre di Suzanne ritiene che questi non siano affari suoi. Lei la pensa diversamente e inizia una ricerca sulle proprie origini e sui suoi ascendenti che la porteranno a realizzare questo incredibile documentario, sul quale ha lavorato per oltre dieci anni (ma la sua ricerca è iniziata quando era quattordicenne!).

The Last Goldfish è un’esplorazione identitaria che espande il concetto stesso di identità: Suzanne cerca di rispondere alla domanda “Chi sono io?” provando a ricostruire non soltanto le tappe geografiche dei suoi antenati quanto quelle spirituali e storiche. “Su” è tanto figlia dei suoi genitori quanto di un percorso storico che inizia in Germania, prosegue a Trinidad e termina in Australia. Ma questo tracciato non è lineare: si ramifica nel tempo e nello spazio e s’ingigantisce a mano a mano che Su va indietro negli anni. La sua identità si arricchisce non solo di persone ma di elementi, di temi: la sua storia è la storia della diaspora; la sua identità è anche quell’identità ebraica che i suoi genitori hanno sempre tentato di coprire con la maschera del desiderio di essere “cittadini del mondo”.

Ma lasciare la Germania per sfuggire al nazismo, rifugiarsi a Trinidad solo 12 giorni prima che questo Paese chiuda le frontiere all’immigrazione ebraica, fuggire in Australia quando i movimenti Black Power rendono impossibile per i bianchi vivere tranquillamente nelle Indie occidentali, ritrovarsi soli in un altro Paese straniero: tutto questo fa sperare a buon diritto in una “cittadinanza del mondo” ma costituisce anche una serie di esperienze che lascia il segno e rende problematico, per chi eredita un tale bagaglio, definirsi a livello identitario. In questo film l’identità diventa un concetto assai fluido che abbraccia componenti anagrafiche (Su cambia più volte nome e cognome nel corso degli anni), sessuali (è dichiaratamente lesbica), religiose (i suoi antenati sono ebrei) e nazionali: mentre Manfred, a cui era stata tolta la nazionalità tedesca, aveva ricevuto il passaporto Nensen per apolidi, i passaporti di Su spaziano da quello trinidadiano a quello australiano a quello tedesco.

Convinto dalla determinazione della figlia, a poco a poco Manfred si apre e accetta di farsi filmare mentre racconta, anche se a volte si copre il viso con una mano perché le immagini che gli vengono alla mente tramite le sue stesse parole sono troppo forti e coprirsi gli occhi gli permette forse di attenuarne la potenza drammatica. Insieme, padre e figlia costruiscono il loro albero genealogico. Nonni, zii, cugini: un mondo si apre davanti a Su. La donna inizia a mettere insieme i pezzi di un puzzle, (ri)componendo una famiglia che era stata dimenticata dalla Storia e che lei stessa non credeva di avere. Ma soprattutto, attraverso i legami umani che grazie a questa ricerca intesse con i suoi parenti ritrovati, Su costruisce una sua nuova identità.

Inserendosi in una tradizione stilistica ormai diffusa nel documentario (particolarmente in quello a tematica ebraica: si vedano ad esempio The Cemetery Club di Tali Shemesh e Hugo di Yair Lev), The Last Goldfish affida la sua narrazione interamente alla voce di Su, che si mette in gioco in prima persona e ripercorre il proprio cammino mostrandoci fotografie, materiali d’archivio, film di famiglia e anche sé stessa mentre viaggia, interroga, filma e fotografa per realizzare il documentario. Questa è tuttavia anche una precisa scelta morale, oltre che estetica: simboleggia la necessità di tramandare la memoria di un passato che non deve ripetersi. Ed ecco perché, verso la fine del film, diventa esplicito il parallelismo con la situazione dei 65 milioni di rifugiati che oggigiorno scappano dai propri Paesi cercando vita e speranza altrove.

Il film di Su, “ultima ma non ultima” Goldfish, è quindi un documento importantissimo che ricostruisce un passato con uno sguardo al presente già proiettato al futuro.