“There’s a starman waiting in the sky” canta David Bowie nel recente The Martian di Ridley Scott in programmazione in questi giorni al cinema Lumière. L’uomo delle stelle in questo caso si chiama Mark Watney (Matt Damon), è un astronauta americano e sta aspettando che qualcuno lo venga a salvare dopo che i suoi compagni di missione, credendolo morto, lo hanno lasciato solo su Marte con pochissimi viveri. Purtroppo ogni contatto con la Terra è un miraggio e la prossima missione su Marte non arriverà prima di 4 anni. Mark si trova quindi a dover scegliere: arrendersi a una morte certa o combattere con i pochi mezzi a disposizione. Nella migliore tradizione americana – never give up – Mark sceglie di non arrendersi.
The Martian segna il gradito ritorno di Ridley Scott che firma un bel film di grande respiro (respiro che invece tratteniamo noi spettatori nelle scene in cui Mark sta per finire l’ossigeno della tuta spaziale), come forse non succedeva da un po’ nella sua ultima produzione. Un film apparentemente semplice, con una storia forte (tratta dal romanzo dell’ingegnere informatico Andy Weir) e una brillante sceneggiatura (Drew Goddard) che sostengono dall’inizio alla fine un bravo Matt Damon attorniato da buoni comprimari: Jessica Chastain, Jeff Daniels, Kate Mara. Poche speculazioni intellettuali e sentimentali e un cinema accattivante e visivamente potente sono messi al servizio del racconto di un futuro non tanto prossimo che ci fa immedesimare con il protagonista e fare il tifo per il suo ritorno.
“Curiosity”, la sonda spaziale che ha recentemente scoperto l’acqua su Marte, è talmente vicina a noi nel tempo che questa trama pare appartenere più ad un progresso scientifico a portata di mano che alla fantascienza. Una delle belle intuizioni cinematografiche di Scott, infatti, è che Mark è il ragazzo del pianeta accanto, dove gli alieni non esistono e quello che ci fa paura non è più un mostro ma morire di fame. E allora largo alle conoscenze scientifiche accumulate alle spalle, all’ingegno e a un po’ di fantasia: su Marte occorre imparare ad accendere il fuoco col legno, a creare l’acqua dando fuoco a idrogeno ed ossigeno, a coltivare patate autoconcimate e a usare lo scotch per salvarsi la vita. Ma la fisica e la botanica non sono mai state così divertenti: il film riesce ad avvincere lo spettatore alternando momenti di creatività scientifica, suspense e buone dosi di ironia e autoironia (utili a corrodere l’eccesso del granitico ottimismo americano). La bellissima colonna sonora asseconda poi questo registro ironico, scandendo a ritmo dance i vari momenti del film sulle note di I Will Survive (Gloria Gaynor), Waterloo (Abba), Don’t Leave Me This Way (Thelma Huston), Hot Stuff (Donna Summer).
La regia di Scott, che festeggerà a breve i suoi 78 anni, trasforma insomma una materia per certi aspetti nerd in materia puramente cinematografica, consegnandoci un racconto accattivante di conquista e lotta per la sopravvivenza. Il tutto accompagnato da scene di grande fascino visivo: “Amo la creazione di mondi – ha recentemente dichiarato il regista – È una sfida che si ricollega al mio spirito da designer”. E noi spettatori ci godiamo anche questa festa per gli occhi ammirando le scene sulla vastità dei rossi deserti marziani, quelle in cui gli astronauti nuotano in assenza di gravità nei corridoi della nave spaziale con la grazia della danza e la bellissima scena finale del tentativo di salvataggio nello spazio in cui due astronauti ballano un minuetto tra la vita e la morte, avvolti in un arabesco di nastro arancione.
Lorenza Govoni