Con la sua terza fatica Robert Eggers ci dà una mano a capire quello che in fondo sapevamo già: per quanto The Witch e in parte The Lighthouse gli abbiano valso un posto di indiscutibile primo piano nel panorama dell’horror contemporaneo, non è l’horror la sua vera vocazione. Presi assieme, quei due film e The Northman formano piuttosto un’ideale “trilogia della rievocazione storica”. Non tanto e non solo per le ricostruzioni scrupolose di usi, costumi e rituali di epoche passate; ma nel senso di un progetto cinematografico che mira a recuperare e rivitalizzare forme ancestrali di racconto. Dopo una New-England folktale seicentesca e un alcolico Sea Chanty di fine Ottocento, con The Northman la ricerca si orienta verso la dimensione della saga, cioè delle Saghe scandinave su re ed eroi più o meno leggendari che costituiscono una parte fondamentale del background folklorico-mitico del Nord Europa.

Che Eggers si senta moderno trovatore si intuisce anche dall’insistenza con cui implementa nelle proprie sceneggiature l’elemento poetico e letterario, sempre nell’ottica di avvicinarsi il più possibile allo spirito dell’epoca filmata. Per The Lighthouse erano stati i racconti di mare di Sarah Orne Jewett, col loro vernacolo impastato di rum e salsedine. Ora tocca alle Gesta Danorum del cronista medievale Saxo Grammaticus, al cui racconto delle imprese vendicative del principe Amleth si ispirò Shakespeare per scrivere l’Amleto. Affiancato da un co-sceneggiatore sui generis come il poeta islandese Sjón, Eggers ignora quasi del tutto la versione shakespeariana per ricostruire da zero un mondo vichingo chiaroscurale e violento.

In fondo The Northman non fa che rinnovare la scommessa produttiva dei primi due film di Eggers, che, complici le astute campagne marketing di A24, usavano l’horror come efficace veicolo editoriale per le ossessioni dell’autore. Nelle speranze degli ammiratori è proprio questo il trucco che doveva riuscirgli una terza volta: vampirizzare un genere di largo consumo – l’epica storica - per mettere un budget che stavolta eccede gli ottanta milioni di dollari al servizio della propria personalissima visione. O perlomeno, visto che maggiori mezzi si traducono quasi inevitabilmente in maggiori ingerenze produttive (confermate dallo stesso Eggers), dare una versione di quel genere in grado di essere al contempo personale e accessibile.

Sugli esiti di questo compromesso il dibattito è assolutamente aperto. Si può ammirare The Northman per la capacità di iniettare in un revenge movie norreno le qualità migliori del regista, dal puntiglio antropologico al senso pittorico per la messa in scena della violenza; o si può, come chi scrive, ritenere che le esigenze del genere e quelle dell’Eggers-pensiero non trovino quasi mai una sintesi davvero efficace, fallendo specialmente nel tentativo di conciliare la compiaciuta bidimensionalità mitologica del secondo con l’impulso delle grandi narrazioni hollywoodiane verso la psicologia e il character building. Al di là del risultato però The Northman affascina proprio in quanto esemplare di una specie in via d’estinzione: un imponente film di studio che, senza il paravento commerciale di una proprietà intellettuale affermata, affida le sue sorti al talento idiosincratico di un giovane autore in ascesa.

Non a caso Ethan Hawke, efficacissimo in un ruolo per lui controintuitivo, si è richiamato agli anni Settanta della New Hollywood per descrivere la sua esperienza sul set: “ho passato la vita a chiedermi ‘sarò mai su un set che ricorda Apocalypse Now?’. Sapete, quando qualcuno ha le palle, l’insolenza e l’arroganza di dire ‘voglio realizzare un capolavoro’..”. Allo stesso modo, le dichiarazioni di Eggers sulla propria disponibilità a cercare autonomamente il compromesso fruttuoso coi capi di Regency Enterprises sembrano voler fugare i dubbi autoriali che circondavano il suo terzo film, additando come ancora possibile un modello di blockbuster alternativo alle logiche spersonalizzanti da grande franchise di Marvel & Co.

Il distinguo è tanto più opportuno in quanto The Northman – modalità produttive a parte – condividerebbe con quella galassia narrativa ben più di quanto i suoi realizzatori non siano disposti ad ammettere. Cos’è in fondo la tanto sbandierata filologia eggersiana, se non un altro aspetto dell’onnipervasività delle logiche nerd nella cultura contemporanea? Chi è Eggers, menestrello moderno in costante ricerca di un’immersività da rievocazione in costume, se non un altro esponente (diversissimo, certo) dello stesso cinema fantastico, mitopoietico, irretito nella propria autosufficienza narrativa, che oggi sforna storie di supereroi e cacciatori di streghe?

Leggere il cinema di Eggers, e in particolare un oggetto autoriale ambiguo come The Northman, in ottica nerd, consente di evidenziare come quest’ultima – spesso a torto relegata agli ambiti più spudoratamente industriali – sia in realtà una zona di confine ampia, dove non di rado arthouse e cultura pop vengono a convergere. E non c’è forse luogo più caratteristico di questo imbastardimento della fascinazione per la Storia largamente intesa. Proprio la cruda epica del mondo vichingo e anglosassone, in particolare, col suo correlato di ipervirilità e suggestioni spirituali arcaiche, ne rappresenta un affascinante epifenomeno: dallo stesso immaginario pescano oggi Valhalla Rising e Vikings, riletture shakespeariane e Il trono di spade, The Northman e Thor.

In questo senso, più che l’oggetto alieno per cui si spaccia, il film di Eggers somiglia tantissimo a una fotografia del presente.