Novecento, anni Venti, vecchio West. Nelle pianure del Montana, ai piedi di enormi colline rocciose, sorge il ranch dei Burbank, il più grande della vallata, ma minuscolo rispetto alla natura che lo sovrasta. Due fratelli lo gestiscono, discendenti dei più ricchi allevatori del Montana, entrambi laureati, entrambi allevatori. Phil (Benedict Cumberbatch), il più brillante dei due, sovrasta per forza, coraggio e carisma tutto il gruppo dei mandriani, mentre George (Jesse Plemons) subisce il suo predominio sulla terra e guarda alla città, alla sensibilità dei rapporti sociali e all’umanità dei sentimenti. Lì il secondo incontra la vedova Rose (Kirsten Dunst) che si trasferisce al ranch con il figlio (Kodi Smit-McPhee), introducendo così un disequilibrio nella vita di Phil che vede in lei un’approfittatrice e in lui una “femminuccia”.

Il movimento è prima di tutto temporale. Dodici anni dopo Bright Star, che insieme a Lezioni di piano e Ritratto di signora completava un trittico di storie dall’Ottocento, Jane Campion torna al lungometraggio (dopo la serie televisiva, uscita a metà decennio, Top of the Lake - Il mistero del lago) spostandosi al secolo successivo, attingendo a piene mani all’immaginario western su tutti. Prima del suo ritorno il rapporto essere umano-natura per la Campion era riflesso dell’intimità dei protagonisti, il sentimentalismo era letterario, esistenzialista e romantico, e il rapporto uomo-donna era il movimento tensivo chiave dei personaggi femminili del suo cinema.

Amori, passioni, addii e sofferenze. Oggi, in Il potere del cane invece, proprio in quanto western, i protagonisti sono maschili, i corpi sovrastati dalla natura, inondati dai suoi orizzonti, i paesaggi allo stesso tempo inquadrati e incorniciati da finestre o porte aperte che siano. Paesaggi addomesticati dall’uomo che il sentimentalismo cerca di soffocare e il romanticismo di dimenticare. Partendo dall’omonimo romanzo del 1967 di Thomas Savage – costruito in gran parte come una serie di ritratti e di personalità complesse sviscerate, decomposte e ricomposte, messe insieme a scontrarsi l’una con l’altra – Campion decide di mantenere questa impostazione: fare un “film di personaggi”, svelati di capitolo in capitolo, facendo così un “film di attori” con un cast di rilevanza.

La regista prende in mano una storia di uomini nella quale non c’è un protagonista, tanto quanto in verità lo sono tutti, prende il “dominante” Phil, ma lo mostra già “ferito”, in crisi, muoversi (nella prima sequenza) a cavallo intorno al fratello, inseguendolo, cercando da lui qualcosa che non riesce a prendere. Affidato a un Cumberbatch che restituisce perfettamente un soggetto espressivamente trattenuto, tradito, competitivo e afflitto da una repressione che si svela con l’aumento di tensione del film. Una mascolinità che si sgretola a un'unica velocità (ritmata dalle musiche di Jonny Greenwood) con lo scorrere del tempo, lo svelarsi dei capitoli, l’approcciarsi al proprio Io.

Con ciò, The Power of the Dog si situa in mezzo a quella tendenza che, in questi ultimi anni, sembra voler affermare il western in generale, e il mito della frontiera in particolare, come luoghi per eccellenza del femminile, della rimessa in discussione della mascolinità e della ri-fondazione di un mito. Da Meek’s Cutoff a First Cow di Kelly Reichardt da The Rider e Nomadland di Chloé Zhao al The World to Come di Mona Fastvold (presentato alla scorsa Mostra del Cinema) o la serie televisiva di Barry Jenkins La ferrovia sotterranea.

Tutti riaffermano che il western oggi, in ogni sua forma, può essere un testo perfetto per riscrivere un mito. Da un lato affermando personaggi femminili, dall’altro riscrivendo delle mascolinità (I fratelli Sisters di Audiard per esempio) o, infine, usando alcune icone mascoline per scovarne desideri sessuali conflittuali (come faceva Ang Lee con i cowboy di I segreti di Brokeback Mountain). Così come fa questo film, guardando in tutte e tre le direzioni, ma partendo da un romanzo di cinquant’anni prima, quindi canonizzando il procedimento, dandogli un respiro più classico, senza però mai banalizzarlo o semplificarlo.