In una recente intervista Robert Eggers ha dichiarato di provare orrore anche solo al pensiero di inserire uno smartphone in uno dei suoi film. Al contrario, David Cronenberg nella sua ultima fatica, The Shrouds, inserisce smartphone, tablet, schermi, computer e altri innumerevoli tipi di tecnologie. L’abisso estetico che intercorre fra i due autori non va certo spiegato, ma conferma ancora una volta l’attenzione, per non dire ossessione, che il maestro canadese riserva alle evoluzioni della stretta contemporaneità, senza alcuna paura di rappresentarle e portarle alle loro più estreme conseguenze. Lo ha fatto fin dai suoi esordi e continua a farlo incessantemente ora oltre la soglia degli ottant’anni.
In questo caso di tecnologia – che va intesa come specchio ed estensione dell’uomo che la crea - se ne aggiunge un’altra: affatto visionaria, come ha sostenuto lo stesso Cronenberg, ma assolutamente plausibile nel presente. Il ricco imprenditore Karsch, infatti, crea dei sudari hi-tech che permettono di vedere su uno schermo, della lapide o più comodamente sul telefono tramite applicazione, la decomposizione dei corpi dei cari defunti. L’era in cui tutto viene ingurgitato e riprodotto sotto forma di immagine investe anche quella zona dell’esistenza che sembrava intoccabile.
Un’ossessione, quella dello sviluppo della tecnologia, che si lega a un’altra ossessione tipicamente cronenberghiana: quella della morte. Una morte che, dal punto di vista di un ateo convinto, è fine ultima e ineluttabile: l’epilogo tragico dell’esistenza di ognuno di noi. E quindi grande mistero e luogo di costante e angosciata interrogazione, come in tutta la filmografia dell’autore canadese.
Senza aldilà, ovviamente, non c’è anima, ma solo il corpo: l’unica traccia di noi, destinata a marcire e a decomporsi. Allora ecco che abbiamo citato tre delle grandi matrici del cinema di Cronenberg: la morte, il corpo e la tecnologia. In The Shrouds unite in modo mirabile, quasi a riassumere plasticamente e dichiaratamente un’intera poetica e un intero universo cinematografico.
Cronenberg parte questa volta da sé stesso e dal lutto recente per la scomparsa della moglie Carolyn. L’ideazione della tecnologia dei sudari viene proprio dall’impossibilità di superare il dolore dell’assenza dell’amata e dal tentativo di aggirare il lutto creando una connessione macabra e necrofila con, ancora una volta, il corpo, seppur in decomposizione. Da qui nasce appunto il personaggio di Karsh, un Vincent Cassel magnetico che si avvicina al suo creatore quanto il più possibile: nel modo di vestire, di porsi, di parlare (lentamente e nascondendo abilmente l’inflessione francese), perfino nel portare i capelli.
Dapprima tutto è scuro, tagliente, glaciale, imperturbabile. Poi il mondo del protagonista viene travolto da più parti e portato in una spirale di manipolazioni, complotti politici e passioni irresistibili. L’invasione tecnologica non finisce, va anche oltre il sudario: deturpa la tecnologia di Karsh e la rende un altro degli innumerevoli mezzi di controllo dei tanti Poteri, foucaultianamente intesi, citati nel film.
Cronenberg non ci mette in guardia da nessun futuro: è già il nostro presente. Abbiamo già demandato parti cospicue della nostra libertà in cambio di tecnologie che promettono di semplificarci la vita. Rimane solo da capire quanto ancora siamo disposti a rinunciare o quanto vogliamo riprenderci.
Prendere coscienza di questo, per Karsh, non può significare altro che riprendere possesso e controllo del proprio corpo, quindi della sua sessualità. La risposta alle oscure esplorazioni dentro il mondo di Thanatos non può essere che l’Eros: prima attraverso la rievocazione onirica e menomata (ma non meno erotica) del corpo della moglie, poi nel corpo simile della cognata (il tema del doppio, ancora una volta) e, in ultimo, l’evasione con una donna ricca e cieca (con lei Karsh può assumere nuove fattezze, quindi un nuovo corpo e una nuova esistenza).
Al termine di un perfetto ribaltamento tematico, Eros infine travolge Thanatos e si impone quale grande motore immobile di tutta la vicenda. Come a ricordarci che, nonostante tutto, la morte rimane paradossalmente il grande mistero del vivere, ma a muovere le nostre fragili e scomposte vicende quotidiane è quell’inesauribile erotismo che, da sempre, in Cronenberg, nasce dalla consapevolezza del dolore, esistenziale e anche fisico (si veda Crash emblematicamente) e si pone come risorsa ultima, disperato tentativo di attaccamento alla vita.
E quindi The Shrouds si realizza anche quale sintesi icastica di un’altra dialettica cronenberghiana, filosofica ed estetica al tempo stesso: quella tra lo sguardo da antropologo/entomologo sulla realtà (la regia essenziale, quasi documentaristica) e l’esplosione dell’Eros e quindi di quel mélo che Gianni Canova ha sapientemente individuato come innesco invisibile e necessario della poetica dell’autore di Toronto.
Così come gli opposti sono fatti per stare insieme, anche le dialettiche vivono per mescolarsi l’una nell’altra, convivere e risignificarsi incessantemente in un gioco di specchi, rappresentazioni e visioni che è l’indecidibile spaziotempo cronenberghiano, in perenne e irrisolvibile oscillamento tra la realtà e i suoi negativi.