Long Island, anni 70. Nel bar Dickens dello zio Charlie, il ruvido e smaliziato gestore, si concentra l’educazione sentimentale di J.R., un ragazzino abbandonato dal padre e supportato da Dorothy, madre amorevole che lo fa crescere nella casa del nonno, tutta angoli pendenti e anarchica armonia. Nel bar dello zio, J.R. apprende i segreti delle “scienze maschili”, delle automobili e del drink giusto da abbinare alle adeguate conversazioni virili. Sugli scaffali dietro il bancone, Charlie elargisce però anche libri che stuzzicano la fantasia del bambino, ossessionato dalla voce del padre dj che sporca le frequenze radio tra una canzone dei Golden Earring e una di Jim Croce, e dalle passioni letterarie che lo fanno volare lontano. Di strada, J.R. Moehringer ne farà tanta, ma il ritorno a casa sarà sempre il migliore rimedio al mondo di fuori.

Il film, tratto dal memoir di J.R. Moehringer e sceneggiato da William Monahan, è una fiaba suburbana che ripropone il tema, molto americano, dei padri che si emancipano dai figli (pensiamo agli ultimi Interstellar, Honey Boy, Ad Astra) che, alla forza prorompente dei ruvidi narratori del Midwest, contrappone toni edificanti e una rievocazione del passato malinconica: un idillio familiare della working class. Lo sguardo e il punto di vista, infatti, sono quelli di chi anela a un altrove idealizzato, colmo di successo e soddisfazioni personali, oltre che di rivalsa, ma senza che la narrazione diventi critica tagliente nei confronti del sogno americano infranto.

Variopinto, eterogeneo e classista, il mondo che si srotola di fronte al curioso J.R. (l’esordiente Daniel Ranieri) è osservato e studiato col piglio del piccolo antropologo e il ragazzino si impegna a scoprire e a riflettere sulle alchimie che regolano i rapporti umani, attraverso quella curiosità cognitiva che gli permette di cogliere le suggestioni che i libri gli svelano pagina dopo pagina, mentre lo zio Charlie (Ben Affleck) si sostituisce al padre dj assente e violento.

Clooney, come il suo protagonista, guarda lontano, ma senza alcuna ossessione escapista, perché lo sguardo è sempre rivolto alla rappresentazione della famiglia proletaria e gioiosamente anarchica, come quella di J.R. o a quella alto-borghese, come nel caso della ragazza benestante di cui Junior si innamora perdutamente, oltre che del tender bar, vero e proprio centro emotivo e culturale dell’intera vicenda.

Modelli sociali e tensioni classiste aleggiano in superficie, evidenziando sfumature di tenue critica sociale che si stemperano nella limpidezza del racconto di Monahan, cristallino come il cielo terso sopra Manhasset, quartiere in cui vive J.R, e luminoso come il sorriso di mamma Dorothy quando apprende che il figlio è stato selezionato per frequentare Yale; The Tender Bar è, a tutti gli effetti, un coming of age movie delicato e girato col pudore di chi ama l’uomo più che l’ambientazione iconica anni 70, qui usata come sfondo in cui si animano le relazioni affettive e non come contesto e laboratorio sociale tout court.

Una storia di formazione in cui le strade convergenti verso il punto di fuga lontano non rimandano ai classici road movie a stelle e strisce, ma a un recupero sentimentale della dimensione del self made man che scorrazza per le strade americane pensando sempre all’esperienza più catartica di tutte: il ritorno a casa.