Pensando alla cinematografia contemporanea e al revival horror (spesso denominato arthouse o elevated nel tentativo di emanciparlo dal jumpscare più brutale), è impossibile non pensare all’eredità con cui The Wicker Man ha benedetto — o maledetto, a seconda dei casi — le cospirazioni di Robert Eggers, Jordan Peele, Karyn Kusama, Ari Aster, Alex Garland, fuori e dentro i fenomeni distributivi A24 e Blumhouse. Chi ha visto Kill List, The Invitation, Hereditary, Midsommar, Men (ma anche The VVitch, Saint Maud, The Hole in the Ground, Lamb) potrà intuire di cosa si sta parlando.

Si tratta di un culto a tutti gli effetti, dentro e fuori dalla diegesi, perché la figura di vimini di Robin Hardy si è imposta nella storia del cinema al di là del bene e del male, ispirando venerazioni, leggende, saggi, documentari (aspettiamo con trepidazione il nuovissimo Wickermania!, a opera degli eredi Hardy), remake diretti e indiretti, festival musicali e addirittura generi cinematografici e musicali (rispettivamente il folk horror e il neofolk cosiddetti). Ma sarà bene procedere con ordine.

Al principio fu la Hammer Film. O meglio, la “Hammer Horror”, così come venne reinventata nel 1955. Il tentativo della casa di produzione inglese (ormai oggetto di culto, manco a dirlo) di trasformare esteticamente e tematicamente i classici horror resi celebri dalla Universal tra gli anni ‘30 e ‘40, aveva contribuito a confondere il volto di attori e attrici come Peter Cushing, Oliver Reed, Barbara Shelley, Ingrid Pitt e Christopher Lee con i personaggi che interpretavano.

Ciò che era già successo negli Stati Uniti con Vincent Price (ancor più galeotta la collaborazione con Roger Corman sul territorio delle trasposizioni di Edgar Allan Poe) si stava verificando nel Regno Unito, col beneplacito di feticisti del genere e collezionisti: giovanissimi adoratori di immaginette di Dracula dagli occhi iniettati di sangue e Van Helsing, mummie, licantropi o formose vittime e carnefici dai canini sporgenti.

Fu nel 1971, dall’insofferenza di Christopher Lee per la maschera da vampiro che gli era stata cucita addosso, che Anthony Shaffer — già sceneggiatore per Hitchcock e Mankiewicz — cominciò a ragionare con l’attore su un horror che esulasse dai cliché del genere e che fondesse, con la minima dose di violenza esibita, thriller e mistero in un travelogue perverso, con un pizzico di humour nero che scaturisse dal classico incontro-scontro tra due mondi opposti. Ispirati dall’intrigante romanzo di David Pinner, Ritual, Shaffer e Lee se ne assicurarono i diritti per 15.000 sterline, convincendo Robin Hardy (col quale Shaffer aveva fondato la casa di produzione televisiva Hardy, Shaffer & Associates) e Peter Snell della British Lion a unirsi al progetto.

La storia sceneggiata da Shaffer è semplice, ma curata ossessivamente dalle ricerche storiche sul paganesimo condotte al fianco di Hardy. Una lettera anonima conduce il sergente di polizia Neil Howie, fervente cristiano, verso Summerisle (isola dal nome finzionale, ma inglobata narrativamente nell’arcipelago delle Ebridi), per indagare sulla scomparsa di una bambina di nome Rowan Morrison.

Mentre l’intera comunità continua a negare che la bambina sia mai esistita, ogni ricerca viene resa più complessa dal disagio morale che Howie finirà per esperienziare dal confronto con gli isolani. Adorazione di simboli fallici, pratiche sessuali all’aperto e un culto naturalista verso antiche divinità pagane alimenteranno conflitti interiori e angosce sessuofobiche del protagonista, riflettendo in modo simbolico (e all’occorrenza più diretto) sui temi del controllo, della femminilità e della fede.

Basterebbero queste premesse per intuire una spiccata unicità del film fuori e dentro lo schermo, ma vale la pena soffermarsi ancora sull’ossessivo “amore per l’idea”, ciò che ne ha mosso la realizzazione oltre ogni avversità. Le riprese di The Wicker Man iniziarono nel periodo più buio dell’industria cinematografica britannica, quando anche la British Lion si trovava nel pieno di una crisi senza precedenti. Ça va sans dire, il budget messo a disposizione delle riprese risultò significativamente basso. Snell, Shaffer e Lee rinunciarono al proprio compenso pur di portare a termine il progetto, affrettato dal tentativo di non svendere la società a una compagnia più grande.

“Continuo a ripeterlo e la gente non ci crede. A volte le cose si fanno per amore” — parola di Christopher Lee. Robin Hardy, che non aveva mai diretto un film prima di allora, venne colto da infarto poco prima delle riprese. Questo evento gli impedì di ricevere un’assicurazione sanitaria, e costituì la prima di una serie di disavventure che condussero alla sua disfatta economica, alla rottura della collaborazione con Shaffer e all’oblio che gli toccò negli anni a venire. 

Ma The Wicker Man era destinato a essere portato a termine a ogni costo. Anche a costo di trasformare l’autunno in estate, incollando fiorellini posticci sugli alberi, pur di non ritardare i tempi di produzione. Incassati i rifiuti di David Hemmings e Michael York, il ruolo di Neil Howie fu assegnato a Edward Woodward, già noto in Regno Unito per la serie Callan e ben predisposto a un compenso più contenuto. Diane Cilento, Britt Ekland e Ingrid Pitt furono scelte per i ruoli femminili più rilevanti – e strategicamente ambigui – della comunità di Summerisle.

Nel tentativo di risemantizzare i tratti seducenti con cui si erano imposte nella cinematografia inglese, la loro femminilità coincide nel film con una liberazione “altra” che rende la scrittura dei loro personaggi doppiamente significativa. Ci fu spazio anche per l’allora poco conosciuto Lindsay Kemp (artista a tutto tondo, destinato a diventare mentore di David Bowie e corpo-cardine dell’opera di Derek Jarman) mentre a Christopher Lee, naturalmente, toccò il ruolo di Lord Summerisle.

Sia chiaro: Lord Summerisle non è soltanto un villain, né tantomeno il male incarnato di un film Hammer. Lord Summerisle è un personaggio a tutto tondo, uno di quelli che, per parafrasare Whitman, “contengono moltitudini”. Maschile, femminile, sacralizzazione e iconoclastia — Lord Summerisle è tutte queste cose insieme. Ed è proprio la devozione di Lee per questo film che dà vita a un personaggio così sfaccettato: il desiderio di portare a termine un film estraniante, il bisogno di tagliare i ponti con ciò che è più familiare giocando con una scala di grigi, fuori e dentro il proprio contesto storico. Un bisogno condiviso che in qualche modo ha condannato tutti i partecipanti al progetto, definitivamente schiacciati dall’assorbimento della British Lion da parte della EMI. 

Furono i nuovi produttori Michael Deeley e Barry Spikings a calare sul film la scure che l’avrebbe definitivamente mutilato. Non c’è altro modo di dirlo: non credevano nel progetto che gli era capitato tra le mani “per procura” e cercarono a tutti i costi di collocarlo nel mercato dei B-movie per assicurargli un futuro commerciale, per quanto modesto. Ciò fu deciso nonostante una prima versione del film fosse passata in anteprima a Cannes, destando l’interesse dei distributori.

Fu proprio Roger Corman a suggerire a Deeley (ingenuamente? Quién sabe!) di tagliare circa 13 minuti per adattarlo il più possibile al mercato americano dei film “di serie B” e renderlo un appetibile prodotto per collegiali. The Wicker Man fu così brutalmente ridotto da 100 a 87 minuti. Non solo: parti del film vennero modificate, spostate, invertite, censurate senza che nessuna delle menti dietro il progetto originale fosse coinvolta.

The Wicker Man, così come era stato re-immaginato dai “manager”, uscì nei cinema inglesi nel dicembre del 1973. In occasione dell’anteprima, Christopher Lee contattò tutti i critici di sua conoscenza per invitarli a scrivere del film e, in alcuni casi, si offrì addirittura di pagargli il biglietto. Ma del film non si parlò abbastanza e smise di circolare in brevissimo tempo. Negli Stati Uniti, dopo altre tribolazioni distributive che lo condussero nelle spire della Warner, il film esaurì ogni potenziale dopo qualche proiezione di prova… nei drive-in.

Molte leggende sono circolate circa i negativi originali, per anni creduti perduti o persino mandati al macero. Dopo gli innumerevoli tentativi di Robin Hardy di scovare il materiale di partenza, un ibrido composto da parti di un 35mm e parti di un telecinema in VHS ha dato vita a una Director’s Cut rilasciata nel 2001 per il mercato home video (99 minuti: la versione più completa esistente). Ma è stata una campagna Facebook di StudioCanal nel 2013 a determinare la scoperta di un 35mm da ben 92 minuti presso l’Harvard Film Archive. Da questa rivelazione è stato realizzato The Wicker Man: The Final Cut, 91 minuti montati in accordo con Robin Hardy per dare nuova dignità al film. Dignità ritrovata, come spesso accade, a distanza di quarant’anni dalla sua uscita. Come si dice? Meglio tardi che mai.

D’altro canto, in occasione del cinquantesimo anniversario, questa stessa versione torna restaurata in 4K Ultra HD (già proiettata nottetempo durante la scorsa edizione de Il Cinema Ritrovato) e viene commercializzata in un box set che riesce nell’intento di far salivare i collezionisti di tutto il mondo. Ma l’eredità di The Wicker Man è molto più di un oggetto per feticisti e vale ancora la pena chiedersi che cosa resti di un film tanto desiderato e tanto — no, non sfortunato sabotato, dai produttori quanto dalle contingenze. Anche con la morte di Hardy, Shaffer, Lee e gran parte di chi ha contribuito alla sua realizzazione, il culto resta vivo, pulsante.

Perché The Wicker Man è un film senza tempo che ha il doppio della rilevanza nell’epoca della visibilità totale. Nessun altro film a basso budget ha saputo costruire la tensione per sottrazione come l’opera di Hardy e Shaffer, o interpretare le contraddizioni sociali del periodo in una dimensione sospesa tra sogno e paranoia, rendendolo antico e moderno insieme. E se le circostanze non sono favorevoli — e quando mai — il resto è puro allineamento cosmico in cui le scarse risorse a disposizione riescono addirittura ad esaltare l’anima dell’operazione.

Dalla magia del cast a quella della colonna sonora di Paul Giovanni, un concentrato di brit-folk psichedelico, solenne come una marcia funebre, che oggi diventa controparte sonora di una fiamma davvero impossibile da spegnere.