"Il Quarto potere dei film horror". Così la rivista di culto Cinéfantastique definì nel 1977 The Wicker Man, capolavoro del cinema inglese realizzato in un periodo difficile per l’industria britannica. La stessa British Lions, produttrice del film, venne comprata durante le riprese obbligando la troupe a finire il prima possibile. Una volta distribuita, l’opera non ottenne l’attenzione che meritava ma venne riscoperta già pochi anni dopo, complice anche l’interessamento del regista nel recupero del girato tagliato in montaggio.
Il film d’esordio di Robin Hardy ci trasporta in una piccola comunità delle isole Ebridi, dove un poliziotto cristiano scozzese viene inviato ad indagare sulla presunta scomparsa di una bambina. L’elemento religioso è fondamentale in questo folk horror, in cui il disvelamento del mistero passa necessariamente dalla comprensione del culto neopagano di matrice celtica soprasseduto dal carismatico Lord Summerisle, interpretato da uno splendido Christopher Lee.
Che non ci possa essere un happy ending è chiaro fin dal decimo minuto, ma la penna di Anthony Shaffer riesce a tenere costantemente avvinti mostrando poco alla volta, spiegando il meno possibile e al contempo esplorando in profondità l’ambientazione e la cultura del luogo. Sempre in bilico fra inquietudine e fascinazione, la dottrina autoctona di comunione totale con la natura, che rimanda in alcune pratiche a certe esplorazioni mistiche della gioventù sessantottina, relativizza in più di un’occasione la monolitica fede del protagonista e con essa diverse norme del costume occidentale.
Hardy si dimostra abile nel valorizzare il perturbante anacronismo della comunità attraverso l’audio oltre che al visivo. La colonna sonora, realizzata da Paul Giovanni e dai Magnet, è una perla del folk dell’epoca al pari dei primi lavori di gruppi come Jethro Tull e Fairport Convention, e impreziosita da una versione del brano medievale Sumer Is Icumen In.
La regia esalta infine la commistione degli elementi paesaggistici con la nuda fisicità delle figure umane, centro nevralgico delle azioni dei cultisti, fino all’estatica frenesia della celebrazione finale, che sembra muoverci nel tempo piuttosto che nello spazio.