The World to Come di Mona Fastvold esordisce con una solenne voce fuori campo volta a descrivere i tormenti di una donna che vive con il marito in una fattoria nel Nordest degli Stati Uniti di fine Ottocento. Fin da queste primissime battute appare chiara la discrepanza tra il candido ma apatico lirismo della narrazione verbale ed il rustico calore della vivissima messa in scena. Le parole della protagonista Abigail (Katherine Waterston) scandiscono il passare delle stagioni e l’evolversi della sua condizione personale, dalla dolorosa monotonia iniziale alla dolce rifioritura favorita dall’affettuoso rapporto instaurato con la nuova arrivata Tally (Vanessa Kirby alla sua seconda notevole apparizione in questo festival), anch’essa insoddisfatta moglie di un austero fattore a cui non riesce a dare un erede.
In questo rigido scenario montuoso - accentuato dai freddi contrasti dei colori invernali - scevro di contatti umani e di esternazioni affettive, gli incontri rutinari tra le due si stagliano come unica fonte di distensione e appagamento. Un’oasi di felicità su cui si stende l’ombra minacciosa della presenza maschile, non tanto ingombrante per intromissione diretta da parte dei rispettivi consorti, quanto più per il timore da parte delle donne stesse di vedere smascherato il loro segreto idillio.
The World to Come è incentrato dunque sull’incontro di due personalità atipiche nel loro tempo, che si trovano a rigettare il ruolo nel quale l’istituzione patriarcale vorrebbe relegarle. Entrambe impossibilitate alla maternità (Abigail non si sente pronta ad una seconda gravidanza dopo la morte prematura della figlia, mentre Tully nonostante i tentativi non riesce a rimanere incinta) e quindi a quello che viene concepito come il loro principale apporto al nucleo famigliare, esse trovano nella reciproca presenza la ragione di un’esistenza altrimenti inautentica. Mona Fastvold conosce bene i principi che regolano il melodramma storico, e in questa occasione li dispone accuratamente al fine di ottenere il massimo rendimento dalla relazione fulcro della storia, lasciando che ogni risvolto venga filtrato da esse e ne assuma il medesimo sentore di tenera euforia o aspra frustrazione.
Il limite di questo approccio si rivela nella scelta poco efficace di relegare gran parte di questa burrasca emotiva al racconto diaristico di Abigail. Un atteggiamento consapevole, mirato alla resa esasperata di un amore che per sopravvivere ha bisogno di rimanere celato al mondo, ma che mostra tutta la sua debolezza se confrontato alla magnificenza dell’immagine. Strizzando l’occhio al cinema minimale di Béla Tarr, la realtà bucolica rappresentata è dipinta in maniera pregnante dalle minuscole azioni che compongono la quotidianità dei personaggi. Un utilizzo naturalistico della luce, unito alla semplice raffinatezza di costumi e scenografie, restituisce un’ambientazione dal notevole impatto estetico, all’interno del quale le figure umane si muovono silenziosamente, divorate dalle ombre degli interni e fuse con il paesaggio come fossero dipinte su tela. In uno scenario così vibrante sono i movimenti, i gesti e le espressioni a farsi carico di sensazioni trasmissibili oltre i limiti dello schermo.
Il tutto, accompagnato dal perturbante utilizzo del sonoro e del tetro accompagnamento musicale di Daniel Blumberg, genera un apparato dal debordante fascino, ma altresì pervaso da una ruvidezza comunicativa adeguata al contesto di riferimento. Peccato che l’autrice decida di concentrare altrove le proprie forze, ripiegando principalmente su una didascalica, seppur intensa, esposizione orale che esaurisce troppo presto la sua intima e delicata energia.