Peschiamo anche questa settimana dal bel mini-sito dedicato al film, proponendo una silloge di recensioni d’epoca (e non solo) relative a Todo modo. La riproposta del capolavoro di Petri in sala serve come al solito – almeno per noi di Cinefilia Ritrovata – allo scopo di ricostruire una storia delle idee e delle interpretazioni. A seguire.
Nel film Todo modo di Elio Petri il Palazzo del potere, la metafora di cui Pier Paolo Pasolini ha dato una raffigurazione impressionante in Salò-Sodoma, diventa un nuovo bunker della Cancelleria. Sulla scia del profetico romanzo di Leonardo Sciascia, dal quale ha attinto liberamente tensioni e immagini senza seguirne il decorso narrativo, il regista romano ci offre una visione apocalittica dell’Italia di oggi. […]
Pur suggestionato da Sciascia, Petri non ha avuto complessi nel fare propria la materia del libro. […] il film non non è un’illustrazione del romanzo, ma piuttosto un contributo alla sua interpretazione. Calando sottoterra l’eremo di Zafer, con l’ambizione di farne addirittura un girone dantesco, Petri ha messo in opera uno spettacolo di rarefatta claustrofobia; e molto vi contribuiscono le scene di Dante Ferretti, i costumi di Franco Carretti, la fotografia di Luigi Kuveiller, il montaggio di Ruggero Mastroianni, le musiche di Ennio Morricone: collaboratori come questi vanno ricordati tutti. E andrebbero nominati uno per uno anche gli attori che percorrono gli ambulacri dell’albergo infernale, bravi e ben scelti: Franco Citti, Michel Piccoli, Renato Salvatori, Tino Scotti, Adriano Amidei Migliano e il sempre sorprendente Ciccio Ingrassia, che sembra un ritratto di El Greco rifatto da Daumier.
Che cosa vuol dire questa parabola? Il significato è evidente. C’è una classe politica indegna, che si sta autodistruggendo e i cui resti andranno spazzati senza pietà se vogliamo salvarci dall’epidemia. […] Con gente come questa, afferma il film, non c’è possibilità di conciliazione, né di compromesso più o meno storico: bisogna lasciare che si distruggano a vicenda e, all’occorrenza, dargli una mano per compiere l’opera di eliminazione. C’è da scommettere che per il suo netto rifiuto, di tipo gobettiano o radicale, il film sarà accusato di infantilismo politico; mentre vale proprio per l’intransigenza criptoreligiosa dello sdegno che lo anima.
[Tullio Kezich, Processo e strage dentro il Palazzo, “la Repubblica”, 1 maggio 1976]
Petri porta ancora più avanti la forma della farsa nera e grottesca già utilizzata in La proprietà non è più un furto. Si vedano ad esempio, in questo nuovo film, la classificazione dei personaggi, il gioco eccessivamente manieristico ma superbamente controllato di Gian Maria Volonté, e la messa in scena sempre più assurda degli omicidi. La Democrazia Cristiana, in ritiro per praticare gli esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola, subisce una progressiva distruzione attraverso l’eliminazione di tutti i suoi membri. […] L’incubo, inizialmente sviluppatosi in un luogo chiuso, assume i contorni di un’apocalittica fine del mondo. Il film usa un po’ della fantascienza di La decima vittima, il grottesco di La proprietà non è più un furto, la violenza satirica di Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto per dissezionare la superbia di una classe al potere – la Democrazia Cristiana in Italia o, al di fuori della penisola italiana, qualsiasi organizzazione politica dominante. Dopo la caricatura troppo manichea di La classe operaia va in paradiso, Todo modo è un modello di precisione, di rigore, di armonia tra la messa in scena e lo sviluppo narrativo, per elaborare pezzo dopo pezzo, paradossalmente, sparizione dopo sparizione, una metafora del potere.
[Hubert Niogret, “Positif”, n. 190, febbraio 1977]
Un film sulla DC al potere, un film contro la DC al potere: un film al servizio della lotta politica in Italia. La gestazione di Todo modo va dal 1974 al ’76. Sono anni che paiono decisivi per il destino politico del paese. Scrive Giorgio Galli: “Effettivamente il biennio intercorso fra l’estate del ’74 e l’estate del ’76 è potuto apparire come il tramonto dell’egemonia democristiana” (Storia della DC, Laterza, Bari 1977).
[…] Todo modo è sia un film di lotta politica (l’accusa, lo scherno, la beffa) sia, e forse soprattutto, da un punto di vista strategico, di lotta ideologica. Petri non cade nell’effetto di credenza della ‘fine del regime’, parola magica con cui si vorrebbe dissolvere il sintomo del disagio politico italiano. Ché, anzi, è proprio tale sintomo al centro del discorso sul Politico che il film intrattiene. Todo modo risulta così l’elaborazione ultima, e forse definitoria, nel senso di essere la più radicale ed eccessiva, la più buia e la più ‘chiusa’, della scena del Politico, come scena dell’impossibilità e impadroneggiabilità della maschera carnevalesca.
[Alfredo Rossi, Elio Petri, La Nuova Italia, Firenze 1979]
Nel cinema italiano, forse a causa della situazione politica, si sta affermando un tipo di film che chiameremo rituale. Si tratta di film in cui la vicenda è ordinata sul traliccio di uno schema ideologico-simbolico come nelle allegorie tradizionali. In altri termini ci troviamo di fronte a dei misteri o rappresentazioni sacre nelle quali il regista, senza troppo curarsi della verosimiglianza ma nello stesso tempo servendosi del realismo che è proprio del mezzo cinematografico, esprime un suo giudizio precostituito sulla cosa pubblica. Ma questi film non si basano, come i misteri, su una verità rivelata; bensì sul rapporto non sempre chiaro e libero in cui si trova il regista con la materia trattata. Donde, spesso, una certa ambiguità di fondo, sia che il regista sia lui stesso coinvolto nel mondo che condanna sia che non riesca ad ancorare il suo giudizio ad un chiaro e articolato pensiero politico. Quali sono i film di questa nuova tendenza del nostro cinema? Diremmo, prima di tutto, Salò Sade di Pasolini e poi La grande abbuffata di Ferreri e Cadaveri eccellenti di Rosi e, infine, adesso, questo Todo modo di Elio Petri. […]
Elio Petri ha fatto un film che, come abbiamo già accennato, rassomiglia, in senso formale e strutturale, ad una specie di mistero profano. Il genere comporta alcuni caratteri distintivi in certo modo inevitabili: la seriosità, la staticità narrativa, la ripetizione, il simbolismo, l’unità di tempo e di luogo, il rifiuto della psicologia, il procedere per blocchi slegati. Nel film di Petri questi caratteri sono tutti presenti più o meno, come del resto in Salò Sade e ne La grande abbuffata: liberi, coloro che non gradiscono questa specie di rappresentazione, di considerarli dei difetti. Tuttavia ci corre l’obbligo di dire che il fatto di avere tenuto la vicenda nei limiti angusti della nostra attuale situazione politica ha finito per dare al film un’aria di pamphlet, con tutto ciò di violento, di contingente e di sommario che comporta il termine. Petri non si è curato di recuperare il sentimento religioso pure soltanto per deplorarne la mancanza; né di approfondire il tema della corruzione sia pure sul piano satirico: il solo sentimento che anima il film è l’odio contro il gruppo dirigente oggi al potere in Italia, presentato, in un’aria grottescamente apocalittica, come una consorteria di anime morte in corpi provvisoriamente ancora vivi.
[Alberto Moravia, Onorevole Sant’Ignazio, “L’Espresso” 16 maggio 1976, ora in Alberto Moravia, Cinema Italiano. Recensioni e interventi 1933-1990, a cura di Alberto Pezzotta e Anna Gilardelli, Milano, Bompiani, 2010]