Un treno percorre un ponte per raggiungere la stazione di Martigues, a bordo decine di immigrati italiani e spagnoli giunti in Provenza alla ricerca di una vita migliore. Due lavoratori si lamentano dell’arrivo degli stranieri, salvo poi rivelare che essi stessi sono immigrati. I passeggeri scendono e alcuni di loro cominciano ad intonare canzoni in napoletano. La cinepresa li segue per un po’, poi si sofferma sul ponte rimasto deserto. Inizia in questo modo Toni di Jean Renoir, probabilmente il più importante regista francese negli anni trenta, alle prese con un’opera sulla comunione di popoli diversi, sulla possibilità di poter costruire qualcosa insieme.

L’Europa dell’epoca si muove in una direzione diversa ma Renoir, come dimostrerà anche successivamente con La grande illusione, dirige un film profondamente umano, ironico e tragico, semplice come i suoi personaggi. La vita in campagna è colta nella sua essenzialità, non ci sono ricostruzioni di ambienti, attori affermati né tantomeno enfatici commenti musicali. Il regista rispetta la solennità del silenzio, preferisce il fruscio degli alberi alla colonna sonora registrata. Si percepisce l’eco di Aurora di Murnau (la sequenza dell’annegamento dovuta alla lite coniugale, la corsa nell’erba alta) e il sentimento del Neorealismo prima ancora che questo fosse anche solo un’idea abbozzata. Naturalezza è la parola d’ordine di questa storia in cui l’amore viene intorbidito dall’influenza del denaro.

La modestia della vita di campagna diventa una dote morale, a cui si contrappongono l’avidità e la pigrizia. Non mancano però, insieme alla registrazione documentaria, segnali di un’istanza creativa, di un demiurgo organizzatore che plasma il racconto. Renoir si concede piccole intrusioni, tratti così minimi da poter risultare impercettibili, in cui impreziosisce il racconto con artifici perfettamente calcolati. Nella ricerca dell’annullamento autoriale vengono amalgamate licenziosità narrative e stilistiche che contribuiscono, paradossalmente, ad aumentare il senso di realismo complessivo. Una prima, di tipo strutturale, è rappresentata dalle canzoni tipiche napoletane.

Come, infatti, nelle tragedie greche il commento del dramma veniva affidato al coro, così Toni è punteggiato dall’intrusione di un gruppo di suonatori che pare onnisciente, tanto riesce a dare voce ai sentimenti che animano i personaggi. Un’altra piccola finezza stilistica, che dimostra l’eleganza del genio alla regia, è l’inquadratura prolungata del ponte nel finale. La stessa scena, all’inizio e alla fine, lo stesso ponte fra popoli, e soffermandosi pochi secondi su quel dettaglio apparentemente così insignificante Renoir riscrive il film da capo, lo sottrae allo scadere del suo tempo e lo restituisce al dominio perenne della memoria, dove è giusto che stia.