Istanbul. Due super-ladri (Melina Merkouri e Maximilian Schell) progettano il colpo del secolo: introdursi al museo del Palazzo Topkapi e rubare il pugnale del sultano Mehmet I, sulla cui elsa sono incastonati i tre smeraldi più preziosi al mondo. Per eludere il servizio di sicurezza assemblano una banda di dilettanti dotati di straordinarie abilità. Ci sono un forzuto tedesco, un acrobata italiano, un misterioso gentiluomo inglese. E c’è Arthur Simpson (Peter Ustinov), ambulante anglo-egiziano dal passato torbido, che mentre fa l’utile idiota consegnando armi di cui non sospetta l’esistenza si fa pizzicare dai servizi segreti turchi.
Solo i primi anni Sessanta avrebbero potuto partorire un film come Topkapi. Confrontarsi oggi con l’opera di Dassin equivale a trovarsi di fronte una sorta di grande summa delle ossessioni tematiche, tendenze stilistiche e produttive di quell’epoca. Accanto al rilancio del cinema spionistico/criminoso culminante nella saga di 007, di cui sembra assorbire tanto il modello quanto i suoi numerosi rifacimenti parodistici, troviamo ad esempio contaminazioni dal fumetto e dall’estetica pop, che il regista (alla prima esperienza col colore) convoglia in un’orgia cromatica di luci, arredi, scenari cartolineschi e scintillii di gemme. Altrettanto tipicamente sessantina è l’aria “globalista” che si respira nel film, creatura di un esule americano in Europa, che nel solco di tante produzioni contemporanee vortica da una location all’altra esibendo un cast multicolore dalle provenienze etniche e geografiche più disparate.
Se dunque per molti versi l’impressione è quella di un’opera profondamente ancorata al suo contesto storico, allo stesso tempo non può essere taciuta la seminalità di Topkapi rispetto alle successive vicende del genere heist. Non solo per la stupenda sequenza “in verticale” del colpo, sostanzialmente rifatta nel primo Mission: Impossible (1996) e ancora oggi capace di tenere incollati alla sedia per tensione e fluidità esecutiva; ma soprattutto per una certa capacità postmoderna di cavalcare ironicamente il confine fra esecuzione e commentario, contribuendo a istituire una tradizione di approccio autoriflessivo che interpreta il film di rapina come esibizione politica dei meccanismi dell’illusione, arrivando dritta fino al Soderbergh di Ocean’s Eleven (2001), al Lee di Inside Man (2006) e ai marchingegni metacinematografici di Christopher Nolan, ammiratore dichiarato del film.
Proprio riguardo al contenuto politico, infine, può essere interessante notare le assonanze fra la trama di Topkapi (gruppo di europei progetta il furto di un prezioso manufatto mediorientale) e le battaglie portate avanti a latere della sua carriera cinematografica dalla protagonista Melina Merkouri. In anni successivi l’attrice greca, moglie di Dassin con cui condivideva il retroterra socialista, avrebbe ricoperto per ben due volte in patria il ruolo di Ministro della cultura, dedicando consistenti energie al tentativo di ricondurre in patria i marmi del Partenone custoditi al British Museum.
Assieme al piano perfetto dei due geni del crimine, gli sviluppi finali del film mettono in crisi un classico tòpos orientalista come quello dell’appropriazione di beni culturali nei paesi soggetti all’influenza occidentale, sovvertendo allegramente le aspettative dello spettatore abituato all’arrogante imperialismo bondiano. Un meritato ultimo sberleffo prima della prossima “rapina”...