Due sorelle, Ester e Anna, e il figlio di quest'ultima, Johan, sono di ritorno da una villeggiatura. Sul treno Ester, la cui salute è compromessa, si sente male e i tre sono costretti a scendere alla prima stazione. Si ritrovano nella stanza d'albergo di una città sconosciuta, dove la lingua è incomprensibile e il caldo opprimente, in attesa di ripartire non appena possibile. Anna, innervosita e colma di rancore verso la sorella, sgattaiola fuori dalla stanza in cerca di avventure sessuali, Johan osserva tutto con occhi curiosi e sgomenti di bambino.

Uscito nel 1963, Il silenzio è l'ultimo film della trilogia di Ingmar Bergman sul “silenzio di Dio”, dopo Come in uno specchio e Luci d'inverno. Unico dei tre a non fare alcun esplicito riferimento né alla divinità né alla spiritualità (a dispetto dell'apocrifo doppiaggio italiano, che mette in bocca a Johan la parola “anima” per mitigare la crudezza del finale), si muove, com'è tipico del cinema di Bergman, ben oltre il piano del letterale. Il conflitto fra Ester e Anna, alla base della pellicola, è sviluppato su una serie di opposizioni manichee: razionalità e passione, controllo e impeto, parola e corpo, ricerca ostinata di senso e abbandono alla vita, superbia e smarrimento di sé.

Il gioco delle antinomie è talmente smaccato che è facile vedere in loro non due individui, ma due parti della stessa persona. Oppure, in termini psicoanalitici, Super-Io e Es. O anche, in termini religiosi, fariseo e peccatore: Anna ostenta il suo odio per Ester, Ester risponde con apparente magnanimità, ma sdegno e freddezza fanno capolino dietro la facciata. Nessuna delle due è in equilibrio, il distacco dal dolore è per entrambe impossibile eppure negato. Né l'intelletto né i sensi sembrano in grado di alleviare la sofferenza umana, si rimanda a un elemento “altro”, mai argomentato filmicamente, la cui necessità ontologica viene dimostrata per assurdo, a partire dalle conseguenze tragiche della sua possibile non esistenza o disinteresse.

L'atmosfera è kafkiana, coi protagonisti imprigionati in un non luogo incomprensibile, con elementi surreali che trasmutano gradualmente la narrazione da verosimile a metafisica: un albergo che sembra ospitare solo una compagnia teatrale di nani spagnoli, un cameriere così solerte da assistere chi muore, un carrarmato che passa sotto le finestre nella notte, un dedalo di strade cittadine in alternativa sovraffollate o completamente deserte. In Bergman è peculiare la creazione di mondi che suggeriscono l'idea del trascendente, ma potrebbero anche essere solo dei semplici “qui e ora”: la domanda irrisolta sulla divinità è rimandata allo spettatore, delegata a ciò che può e vuole vedere.

 

Il tema del “silenzio di Dio”, introdotto esplicitamente ne Il settimo sigillo (1957), si lega qui direttamente alla mancanza di comprensione, all'esistenza di una (forse) insuperabile distanza: Ester fa la traduttrice ma non intende la lingua di quel luogo, e l'apprendimento di poche parole saranno il suo unico lascito possibile a Johan; Anna tenta di superare la sua solitudine nell'incontro sessuale, ma con esiti deprimenti. Dove l'intelletto e il corpo non sembrano arrivare, giunge invece la musica di Bach, che Ester ha scelto, Anna ammette di amare, e il cameriere straniero riconosce. Non a caso la musica è sempre stata considerata da Bergman la forma d'arte più affine al cinema, in grado di parlare direttamente alle emozioni senza mediazioni.

 

Eccellenti Ingrid Thulin e Gunnel Lindblom nelle parti delle due protagoniste, e da manuale del cinema la fotografia di Sven Nykvist: a tratti violenta nei drammatici chiaroscuri, a tratti delicatissima nel cesellare i volti e accarezzare i corpi.