Il western, più che un genere, è uno stile cinematografico: quasi uno stato d’animo, che può benissimo essere ambientato fuori dagli Stati Uniti e svolgersi ai nostri giorni – non necessariamente nell’Ottocento – e che si presta sovente a contaminazioni con gli altri generi. L’opera prima di Ricky Staub, Concrete Cowboy (2020), ne è un esempio, essendo una sorta di western urbano contemporaneo, ma molto sui generis, dove la demitizzazione della Frontiera è inscindibile dal dramma umano e da una sorta di bildungsroman (il cosiddetto romanzo di formazione).

Scritto dallo stesso regista insieme a Dan Walser, il film ha come protagonista il giovane Cole (Caleb McLaughlin), un ragazzo di colore che a causa del suo carattere turbolento viene portato dalla madre a Philadelphia: lì, nella periferia ai margini della città, vive il padre Harp (Idris Elba) in una comunità di cowboy neri che allevano cavalli da generazioni. L’uomo non ha rapporti col figlio da anni, per cui la convivenza si dimostra inizialmente difficile, complice anche la presenza di Smush, un piccolo delinquente che cerca di portare Cole nel mondo della criminalità cittadina. Ma il ragazzo pian piano si avvicina al mestiere del padre, fino a seguirne le orme e a inserirsi nella comunità.

Concrete Cowboy si allontana dai canoni del western contemporaneo che vanno per la maggiore – per intenderci, pensiamo a film come Non è un paese per vecchi dei fratelli Coen, oppure Le tre sepolture o Hell or High Water – ambientati in deserti e cittadine sperdute, fra sceriffi, villain e sparatorie. Siamo più dalle parti del malinconico L’ultimo buscadero di Sam Peckinpah, epitaffio del mito del cowboy, o di Un uomo da marciapiede di John Schlesinger, dove l’uomo della Frontiera deve confrontarsi con la vita alienante della città. Ma non solo: il film di Staub si differenzia dalla massa affrontando un argomento quasi tabù e poco trattato nella storia del cinema western, cioè il dato di fatto storico che – come si evince dai dialoghi fra i protagonisti – molti cowboy fin dai tempi remoti erano neri, e non bianchi come li ha sempre dipinti il cinema. Di film western con protagonisti uomini di colore ce ne sono, ma Concrete Cowboy è forse il primo a mettere in scena un’intera storia di cowboy neri: tutta la vicenda è ambientata in una comunità cittadina e autoctona, dove i protagonisti vivono e vestono proprio come quelli del vecchio West, fra case, recinti, prati e stalle, con un forte effetto straniante.

La regia sceglie una narrazione anti-spettacolare che viaggia fra l’elegiaco (l’affetto per un mondo che sta scomparendo) e il realistico, focalizzandosi in particolare sulla tradizione comunitaria – molti attori del film sono in realtà veri cowboy cittadini – con sequenze che la descrivono dall’interno: senza mitizzarla, bensì narrandola in modo crudo, come un mondo povero fatto di “fango e sudore” (per parafrasare il film di Dick Richards), ma con solidi valori che si tramandano da generazioni. Concrete Cowboy è un duplice romanzo di formazione: quello fra Cole e Harp, alla riscoperta del legame fra padre e figlio, e quello di Cole come cowboy, una dura gavetta che va dal raccogliere lo sterco dei cavalli fino a domarli. Sullo sfondo, ci sono le lusinghe della città e della malavita: due mondi opposti e inconciliabili fra cui Cole deve scegliere, la periferia rurale e la città, che sono rese anche graficamente in modo diverso – la prima con colori caldi e tramonti, la seconda con luci notturne e scene da noir che non sfigurerebbero in un film di Abel Ferrara o del primo Martin Scorsese.

Mentre la modernità avanza inesorabile, con le ruspe che distruggono e il sequestro dei cavalli, Cole si affeziona man mano a questa vita, e la regia ce lo fa percepire attraverso alcune sequenze elegiache degne dei migliori western: la figura del ragazzo a cavallo che si staglia sul tramonto rosso, il cavallo domato, il funerale di Smush con l’omaggio di tutti i cowboy, la gara e le parate dei cowboy in sella. È un mondo messo a rischio dal cosiddetto progresso, ma che non scomparirà mai: perché, come diceva Steve McQueen ne L’ultimo buscadero, “Qualcuno deve pur tenere fermi i cavalli”.