Ci sono aspetti che rischiano sempre di sfuggire nel dibattito sull’universo Gomorra. Come se le polemiche su come e quanto la violenza debba essere riconoscibilmente “educativa” oscurino le prospettive transmediali che quell’universo è riuscito a perfezionare dal 2014 a oggi. Sette anni, cinque stagioni, un film spin-off. Ma anche il proliferarsi di parodie, che è forse la pratica che più legittima l’audiovisivo e il suo impatto popolare. Sette anni del prodotto italiano dal linguaggio regionale più internazionale di tutti, che ha saputo ripensare il genere crime a livello estetico, registico, attoriale, sceneggiatoriale.

Oltre il romanzo di Roberto Saviano, oltre il film di Garrone. Gomorra - La serie si è resa indipendente al punto da raccontare non solo episodi drammatici come la faida di Scampia e Secondigliano, l’ascesa delle cosiddette paranze e le infiltrazioni camorristiche all’interno della politica italiana, ma anche luoghi, relazioni, stereotipi, pregiudizi e tematiche di genere. Un fenomeno di traduzione complesso che al suo finale richiede un bilancio doveroso.

Gomorra - La serie è l’incontro più contemporaneo tra epica e realismo, come testimonia già dalla prima stagione l’episodio ispirato all’omicidio di Gelsomina Verde. Ma il successo della formula non è di stampo documentario, tutt’altro. Anzi, si può dire che risieda proprio nell’aspetto epico della saga familiare, dove “familiare” sta per sangue, eredità che si può tradire e difendere. Piramidi solo all’apparenza patriarcali che subiscono un continuo capovolgimento dei ruoli, laddove si sfruttano conformità e convinzioni per far saltare piani e strutture. Patti labili stipulati in nome di interessi, somiglianza, inganno, dove se la lealtà è richiesta non è mai prevista.

È il racconto che dal clan dei Savastano si ramifica oltre i confini dello spazio d’origine, il viaggio corale di una spasmodica brama di potere che ha sempre un solo epilogo. È la saga di Ciro Di Marzio detto l’Immortale, machiavellico scissionista di Secondigliano, e del nemico-alleato Genny, figlio del boss Pietro Savastano. Quasi una storia d’amore, come ci tiene a ribadire lo stesso Genny in una battuta finale, una danza macabra fatta di odio, tradimenti, ricerca di approvazione, invidie, gelosie, complicità. E attorno a queste due figure, un esercito di personaggi non meno importanti: Salvatore Conte, Donna Imma, Scianel, Malammore, Patrizia, Sangueblù, ‘O Principe, i fratelli Capaccio, Azzurra e Giuseppe Avitabile, la famiglia Levante.

Un intreccio di vendette in cui la hybris sembra essere l’unica vera protagonista, dove anche il paesaggio respira in sincronia col destino dei personaggi coinvolti. Palazzoni, fabbriche, ruggine, intonaco, ethernit, interni in barocco kitsch, pantere (vere e finte), croci al neon. Che ci si trovi a Scampia o in Spagna, a Forcella o in Bulgaria, Gomorra - La serie esibisce l’eterno contrasto tra povertà, abbandono ed eccesso. L’humus minaccioso dei quartieri-dormitorio e delle piazze di spaccio, l’ambizione cieca e sorda che coincide con l’esibizione e l’opulenza.

Un contrasto che si misura anche nella riappropriazione del sacro, come definisce il personaggio di Salvatore Conte: cristiano devotissimo e tracotante, superbo ma sottomesso nella sua ribellione. Uomo capace di reprimere pulsioni e sentimenti per una transessuale, ma non di svestire i panni del capo violento e brutale, in netto conflitto con i principi religiosi che celebra. Come se la fede — non solo di Conte: si pensi a Donna Imma, Malammore, Sangueblù — si mantenesse sempre in un equilibrio interpretativo precario. Un’eterna contaminazione dei simboli, tra senso di appartenenza, rituale, autopunizione, fanatismo e ornamento.

Quello dentro e intorno alla rappresentazione è un meccanismo di opposizioni intime che coincidono con trasformazioni fisiche, sociali, politiche. È un gioco delle parti al massacro, un lavoro sui corpi e sulle psicologie, affascinanti morali mai così abiette. I paragoni con I Soprano e The Wire restano calzanti laddove è riconoscibile un lavoro iconico sulla drammatizzazione e sui dialoghi, ma i personaggi di Gomorra vanno oltre il concetto “americanizzato” di gangster e di anti-eroe. Sono crudeli e passionali tanto quanto sono freddi e impenetrabili, prosciugati di qualsiasi senso di giustizia che non sia quello della prevaricazione e del taglione. Saremo noi, solo noi, ad allinearci su un piano empatico, innamorati persi del loro percorso mitico. Senza mai riuscire davvero a solidarizzare.

Ed è in virtù di questo perverso consenso che si è arrivati a confermare la produzione di un film come L’immortale, sovvertendo gli stessi principi di ineluttabilità della serie. La storia di Ciro Di Marzio diretta dal suo stesso interprete (Marco D’Amore) finisce per respirare in sincrono col prodotto di riferimento, fino a diventarne parte integrante, estetica, sonora e narrativa. Così come Sollima, Comencini e Cupellini avevano fissato le premesse della messa in scena, D’Amore ne raccoglie l’eredità dirigendo non soltanto il primo (e finora unico) spin-off di Gomorra - La serie, ma gran parte della stagione finale. E per quanto la quinta stagione soffra di alcuni squilibri di sceneggiatura e ridondanze, risulta senz’altro coerente con l’intero concept. Un’opera della quale possiamo finalmente tirare le somme.

Dal registro di testimonianza della matrice ci si è assestati su binari di familiarità sempre maggiori. Il disvelamento del sistema camorristico è diventato negli anni competenza ben digerita dallo spettatore, indirizzandosi verso un maggiore coinvolgimento emotivo e punti di vista più personali. Ma a legare il tutto fino ai fuochi finali resta l’uroboro narrativo fatale, la fotografia cupa e acida che ha fatto scuola, quel dialogo semi-dialettale grottesco che è entrato nell’immaginario comune e che ha permesso di giocare con una cerimoniosa paura. Gomorra - La serie ha saputo ridimensionare i carnefici con un grande, non scontato merito: mai perdere il contatto con la percezione popolare.

Ma le ragioni di un culto così ampio non stanno solo nella fascinazione per la spettacolarizzazione della criminalità e di una meridionalità kitsch. L’universo Gomorra ha pur sempre sottolineato le ambiguità dello Stato, esportando un repertorio “locale” fino a renderlo riconoscibile su scala mondiale. Una storia libera, ma pur sempre legata a filo doppio con la ricerca di una coscienza civile e politica. Un universo che trascende i suoi riferimenti, ma col cuore vicino alle infanzie negate, alle vittime delle prevaricazioni e delle ingiustizie sociali. La prova attoriale definitiva per i suoi protagonisti, che nella sottrazione e nell’eccesso hanno rinsaldato i legami con certe realtà. Perché è soprattutto nella tensione e nelle accuse di una “cattiva pubblicità” che si svela la potenza di questo prodotto: un tragico moderno che resterà nella storia dell’immaginario mediale italiano per aver messo in crisi un sistema di modelli comunicativi. Un riferimento per tutte le storie a venire.