Si chiude la rassegna dedicata alla filmografia da regista di Kinuyo Tanaka, con i suoi tre film più melodrammatici. L’esordio, Love Letter, racconta di un ex soldato disilluso e malinconico, Reikichi, alla ricerca della sua amata, con cui ha perso i contatti per via del conflitto mondiale. Sullo sfondo di una Tokyo sempre più moderna e industriosa, vissuta con rassegnata contrarietà dal protagonista, si stagliano le storie di moltissime donne che, per mantenersi, richiedono periodicamente somme di denaro dai soldati americani che hanno avuto come amanti in tempo di occupazione. Ironicamente Reikichi diverrà un ingranaggio di questa macchina di mercificazione dell’amore, che lui stesso disdegna, trovando lavoro come scrittore di queste lettere d’amore/estorsione in lingua inglese, il che lo condurrà però anche a ritrovare la sua amata, Michiko. Da questo momento la focalizzazione del racconto passa sulla donna e sulla condizione di quante come lei hanno dovuto arrangiarsi per sopravvivere.

Tanaka non scade mai nel moralismo, neppure nel descrivere donne prive di scrupoli alla ricerca di facili guadagni. Ad uno smaliziato sguardo contemporaneo traspare piuttosto l’ipocrisia di Reikichi e la sua concezione dell’onore, ipocrita quanto malriposta, stemperata da personaggi secondari che lo aiuteranno a perdonare Michiko. Benché si tratti di un esordio, Love Letter manifesta la grande padronanza del lessico cinematografico della sua autrice (nell’ambiente, in quanto attrice, da quasi venticinque anni). Anzitutto il posizionamento della macchina da presa è sempre chirurgica nel trovare l’angolazione perfetta per raccontare l’emotività dei personaggi. In secondo luogo, la gestione della focalizzazione del racconto, di cui sopra, vivacizza enormemente il ritmo di una storia altrimenti lineare, fino a un finale conciso che lascia interdetti, ma che risulta perfetto riguardo al tema del perdono.

Un discorso completamente diverso vale invece per The Moon Has Risen, sceneggiatura ceduta a Tanaka da Ozu, in segno d’incoraggiamento. Nonostante la buonafede di quest’ultimo, il suo dono finisce per portare più problemi che vantaggi. Sotto molti aspetti l’opera sembra diretta da Ozu stesso, tanto per le tematiche (scontro generazionale, rapporto fra mite campagna e moderna città) quanto per la composizione della crew (Tokanobu Saito come compositore e Chisu Ryu come attore, nel ruolo del capofamiglia) fino allo stile registico discreto e plastico.

L’intreccio episodico delle vicende sentimentali di tre sorelle, su cui aleggia onnipresente lo spettro del lieto fine, mal si accorda con la vivacità estrosa che Tanaka ha dimostrato nel resto dei suoi lavori, e che in questo caso è portata dalla fantastica interpretazione di Mie Kitahara, capace di spaziare agilmente dal registro comico a quello drammatico senza esasperare nessuno dei due. Dell’autrice purtroppo si vede poco: le evocative inquadrature in esterna e un’attenzione particolare al decisionismo femminile nella scelta del coniuge, fatto che in una società fortemente patriarcale non è scontato ma che nell’opera fatica ad emergere, a patto di non metterla a sistema con il resto della filmografia di Tanaka.

Il suo ultimo film è invece il suo lavoro più maturo, Ogin-Sama, il cui titolo internazionale, Love Under the Crucifix, benché coerente con la trama sembra voler rimandare al più famoso Gli amanti crocifissi di Mizoguchi, omaggio di cui Tanaka stessa avrebbe probabilmente fatto a meno, visto il teso rapporti fra i due. Jidaigeki (film in costume) ambientato nell’era Sengoku, racconta la storia d’amore fra Gin, figlia di un maestro cerimoniere del tè, e il daimyo cristiano Ukon nel periodo in cui la legge giapponese ha cominciato a perseguitare i cristiani. Tratta dall’omonimo romanzo di Toko Kon, quest’opera mostra le dinamiche politiche ed economiche del XVI secolo da un punto di vista particolare, quello di Gin, abbastanza vicina ai centri del potere da averne coscienza ma troppo marginale per potervi influire attivamente.

Questa scelta colpisce, a maggior ragione, se si considera che tanto l’amato quanto  il padre di Gin sono due personaggi storici di una certa fama, a cui sono dedicati diversi altri film. Fin dall’inizio, l’amore fra i due è materialmente impossibile e il loro collante religioso, la conversione al cristianesimo, finisce per allontanarli ancora di più. Il focus non è sul rapporto fra il credo autoctono e quello importato da occidente, quanto sulle potenzialità sociali della fede e dei culti in quanti tali. Emblematica in questo senso è la cerimonia del tè, concepita dal padre di Gin come un’occasione di convivenza e fratellanza, anche fra classi sociali distanti, mentre il signore feudale della zona ne approfitta per dare sfoggio del suo potere e della sua opulenza. Ciò che unisce può anche dividere, insomma, ed è sempre il signore a dare inizio alla persecuzione religiosa che costringe Ukon all’esilio.

È in questo momento che il melodramma romantico, l’emozione suggerita attraverso non detti e sguardi furtivi, si fa sempre più cupo e teso fino a culminare nel pathos tragico del suicidio di Gin.