Non posssiamo che tornare su Tre manifesti a Ebbing, Missouri un film che è tante cose: una tragicommedia con finale on the road, un revenge movie al femminile, un western atipico popolato da un bestiario grottesco di nani dal cuore d’oro, pet therapist svampite, sbirri razzisti ancora più svampiti e una madre coraggio ruvida e scorretta, decisa a far luce sulla tragica fine della figlia, raped while dying, a qualsiasi costo. Ma è soprattutto un film indubbiamente riuscito, ben scritto-ben recitato-ben girato, concepito ad hoc per accontentare tutti i pubblici.

È un prodotto di qualità e solido mestiere che funziona su più livelli, una creatura bifronte strategicamente piazzata sul mercato, un’incarnazione limpida della temperie culturale e dello strabismo della Hollywood contemporanea. E checché se possa pensare, per chi scrive non è un rimprovero: si può essere intelligenti ma non smaccatamente furbi, trasversali ma non cerchiobottisti. Martin McDonagh, che ha senza dubbio recepito la lezione, confeziona infatti un’opera capace di fare incetta di Golden Globes (6 candidature, 4 vittorie), raccogliere il plauso delle platee veneziane e totalizzare punteggi di tutto rispetto in ogni possibile aggregatore di metacritica, il tutto senza svilire eccessivamente il box office USA (28 milioni di dollari gli incassi in patria).

Com’è possibile? Con un film di genere che è anche d’autore, che flirta con l’immaginario indie ma non si inimica le platee mainstream. Un film spiazzante e ideologicamente sibillino, perché Tre manifesti è innegabilmente impegnato, e potrebbe marciare a testa alta tra le compagini della Hollywood anti-Trump, anti-razzista e femminista, salvo poi proteggersi dai detrattori del politicamente corretto a colpi di ironia al vetriolo (“How’s the nigger torturing business, Dixon?” “You can’t say nigger torturing no more, you gotta say peoples of colour torturing”, risponde il bad cop di cui sopra a una Frances McDormand da profusione di superlativi).

Tre manifesti è poi un film necessariamente coeaniano, che rimastica l’immaginario postmoderno in uno script affollatissimo e millimetrico – ora struggente ora demenziale, animato da una vis comica che si misura nei fuochi di fila di gag caustiche –, ma che ritrova limpidezza in una messa in scena trasparente, come i tre enormi cartelloni pubblicitari che appaiono ai nostri occhi subito dopo il titolo di testa che li annunciava a parole. Infine, Tre manifesti è un racconto americano di violenza, vendetta e redenzione, magnificamente gestito nei tempi incalzanti così come nelle (poche) pause epifaniche – una perla di saggezza da segnalibro, un cerbiatto nel prato, una lettera d’addio di un poliziotto per bene –, che schiva ogni prevedibilità e gioca a disattendere le aspettative di chi guarda. E così il nonsense si trasforma in umanità, e l’umorismo in tragedia.