Eloise è una ragazza che dalla campagna gallese si trasferisce a Londra per inseguire il sogno di diventare stilista. La capitale britannica è per lei il luogo di connessione con l’immaginario pop anni sessanta che tanto la affascina e con il quale la nonna l’ha nutrita e cresciuta dopo il suicidio di sua madre, avvenuto quando aveva solo sette anni. L’atto estremo non ha però troncato totalmente il rapporto con la figura materna ed è proprio nel raccontare questo dettaglio che già nella prima sequenza di Ultima notte a Soho Edgar Wright introduce la forte intuizione visiva che verrà poi reiterata lungo l’intero film. Eloise vive in un mondo che costantemente la circonda di specchi e superfici riflettenti, le quali, oltre a restituire la sua immagine, diventano per lei dei varchi sul passato che le permettono di instaurare un contatto con luoghi e persone appartenenti ad un'altra epoca.

È proprio il rapporto con gli eventi che l’hanno preceduta a gravare su di lei, minando la sua fragile psiche ed esponendola alla presenza di voraci demoni pronti ad aggredirla. E se da un lato i meandri del tempo possono essere un confortevole rifugio in cui trovare riparo un presente incerto e confuso, dall’altro è necessario confrontarsi con gli incubi imperituri che vi dimorano. Simbolo di questa dicotomia, il suo polveroso appartamento nel quartiere di Soho viene inizialmente vissuto come un luogo intimo e sicuro in cui isolarsi rispetto alle vessazioni della contemporaneità, ma non solo: è qui che la patina tra presente e passato viene squarciata ed Eloise viene catapultata nel torbido fervore della Swinging London.

Rispecchiandosi (letteralmente) nella vita in rapida ascesa della seducente e talentuosa Sandy, la ragazza si introduce furtivamente in un festante mondo dal fascino rétro nel quale può esperire tutte le emozioni che la sua epoca pare volerle precludere. Wright elabora così la sua personale versione dell’alleniana nostalgia che riempie di incanto le fughe fiabesche di Midnight in Paris, celebrando gli attimi di euforia in cui una personalità estranea al suo tempo si trova a provare quello stato di gioia che credeva raggiungibile solamente tramite l’immaginazione e lo straniamento dalla realtà. Ma se nella visione del cineasta newyorkese Parigi aveva il malinconico potere di ipnotizzare la vittima della sua magia fino a inglobarla pericolosamente, le cupe notti di Soho presentano dei rischi ben più impellenti.

La superficie della fiaba attraverso cui si può assistere ad un sogno ad occhi spalancati si incrina fino a disintegrarsi, permettendo a Wright di concedere libero sfogo alla sua indole selvaggia e scoperchiare il vaso di Pandora delle sue influenze cinefile. Lo stato di esasperante angoscia nel quale Eloise si trova catapultata presenta le tinte accese della fotografia di Luciano Tovoli nel Suspiria di Argento, mentre la messa in scena del rifugio domestico come cassa di risonanza del tormento interiore arriva direttamente dai capolavori di Roman Polanski.

A livello concettuale è invece lo sdoppiamento hitchcockiano de La donna che visse due volta a svettare sul resto, con le eccezionali protagoniste Tomasine McKenzie e Anya Taylor-Joy ad instaurare una riuscitissima dialettica tra due corpi dalla bellezza anticonvenzionale che si fanno portatori delle contrapposizioni tematiche dell’opera. Eloise e Sandy non sono esclusivamente l’incarnazione di presente e passato, ma l’incontro tra fragilità e sicurezza, l’armonia tra timido anelito e spavalda ambizione, la sintesi tra razionalità ed istinto.

Due figure simili ma anche e soprattutto antitetiche che si sovrappongono con esiti nefasti. Perché quando lo schermo, inteso come superficie protettiva, che funge anche da medium tra realtà differenti, diventa una breccia verso le più intime vulnerabilità, l’estasi sprofonda nel terrore. Ma è proprio affrontando gli aspetti più spaventosi dell’esistenza che nasce la forza d’animo in grado di generare un nuovo equilibrio.

Questo è il cuore pulsante dell’ultimo, straordinario, viaggio cinematografico a cui Edgar Wright ci invita a prendere parte. Un incubo complesso in cui non viene meno la sfrenata propensione di questo autore verso il piacere dell’intrattenimento. Wright si conferma, al pari forse del solo Craig Zahler, l’autore contemporaneo pervaso dal più limpido sentimento di rispetto e ammirazione verso le strutture collaudate dai maestri del “genere”, nonché uno fra i più genuini epigoni di questi ultimi.

Il suo rimane un cinema concitato ed estroso, che però non manca mai della giusta attenzione nello smussare gli aspetti più complessi della costruzione narrativa. Nelle sue mani sembra tutto facile, diretto e piacevole; anche quando, come in questo caso, i contenuti non lo sono affatto. E questa non è solamente maestria, ma anche e specialmente amore verso la propria creazione e chi successivamente ne dovrà poi godere.